I barconi sulle nostre coste e il Paese in “zona rossa”

L’editoriale del direttore del «Cittadino» Lorenzo Rinaldi

“Negli stessi giorni in cui gli italiani erano chiusi in casa per la zona rossa di Pasqua, dall’Africa arrivavano nuovi barconi carichi di migranti”. Una situazione evidenziata nel dibattito politico, purtroppo sempre poco attento a quel che avviene nel continente africano, cioè alle dinamiche che stanno alla base delle migrazioni. Eppure, una veloce analisi di alcune delle principali aree di crisi a sud del Mediterraneo, ci porta a comprendere come il flusso migratorio, al di là della retorica, potrà essere difficilmente fermato. Il Niger conta 23 milioni di abitanti ed è l’ultimo paese al mondo secondo l’Indice di sviluppo umano dell’Onu. Nei campi profughi gestiti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati vivono 573mila persone (dato aggiornato a fine 2020). Si tratta di una popolazione eterogenea che si porta dietro storie di sofferenza e distacco dalla terra d’origine. Ci sono migranti somali, eritrei, sudanesi ed etiopi che hanno tentato il viaggio verso l’Europa ma non ci sono riusciti o che, una volta intercettati dalla guardia costiera di Tripoli, sono stati rinchiusi nelle carceri libiche e da lì poi sono fuggiti a Sud ritrovando la “libertà”. «Il processo di accoglienza dalle carceri libiche all’Europa si è rallentato - dice Alessandra Morelli, rappresentante Onu in Niger - e capita che le persone in attesa nei campi ripropongano la violenza vissuta nei loro Paesi e in Libia verso l’esterno e anche verso sé stessi. Con i minori è particolarmente problematico, ci sono situazioni critiche di somatizzazione di quello che è stato vissuto ed è molto difficile ricreare un equilibrio, anche perché loro sono consapevoli di essere in un centro di transito e l’attesa crea frustrazione e rabbia».

Nei campi profughi ci sono poi persone fuggite da alcune regioni del Niger stesso: si tratta di zone particolarmente esposte al terrorismo islamico. Al confine meridionale con la Nigeria le persone scappano da uccisioni brutali, stupri, rapimenti a scopo di riscatto e saccheggi dei gruppi terroristici. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 2020 un commando di estremisti di Boko Haram ha ucciso 34 civili: dieci di loro con armi da fuoco, quattro per annegamento e venti persone sono state arse vive, mentre i feriti sono stati un centinaio. La violenza colpisce anche il confine con il Mali, dove da un decennio ormai si registra una condizione di forte instabilità. Nel gennaio 2021, 105 abitanti di due villaggi collocati a cento chilometri dalla capitale Niamey sono stati trucidati nelle loro case da un gruppo jihadista.

La violenza di matrice terroristica sta estendendosi in maniera drammatica anche in Mozambico. In particolare, come ha denunciato monsignor Luiz Fernando Lisboa, già vescovo di Pemba, la regione di Cabo Delgado «sta attraversando una gravissima crisi umanitaria». Il vescovo, che è stato minacciato di morte per la sua testimonianza, parla di «una guerra di stampo terroristico» che dura «da oltre tre anni» e che ha provocato «la fuga di oltre 600mila persone e la morte di più di 2mila civili». Secondo il Christian Councils of Southern Africa ci sarebbero stati anche casi di «decapitazioni di persone e prelievo e traffico di parte di corpi umani». «Cerchiamo di diffondere il messaggio - ha detto ancora il vescovo Lisboa - che l’insurrezione nel Mozambico settentrionale non è solo un problema mozambicano: è un’emergenza regionale di tutta l’Africa australe e quindi un fardello africano che non può essere ignorato a livello globale».

Infine c’è la crisi della regione del Tigray, nel nord dell’Etiopia, dove si fronteggiano forze governative e ribelli. Massacri e violenze stanno provocando la fuga dei civili. Secondo le Nazioni Unite sono circa 223mila gli sfollati nel Tigray, a cui se ne aggiungono 64mila nelle regioni vicine di Amhara e Afar. Inoltre 60mila etiopi sono fuggiti in Sudan e vivono nei campi profughi. Don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa-Cuamm, segnala che «la situazione in Tigray è molto grave e le poche informazioni che arrivano dicono di gente disperata che lascia le proprie case e cerca di nascondersi dai ribelli, rimanendo per giorni senza acqua pulita e senza cibo».

Le crisi umanitarie in Niger, Mozambico ed Etiopia dicono due cose. La prima è che si tratta di situazioni non generate direttamente da condizioni strutturali di povertà, ma dalla violenza della guerra (i due elementi sono poi concatenati, perché la guerra provoca povertà e dove c’è povertà attecchisce facilmente il terrorismo islamico). La seconda è che la pressione sull’Europa non è destinata a diminuire, perché si moltiplicano le ragioni alla base dei fenomeni migratori. E tutto questo avviene mentre il Vecchio Continente è concentrato sulla lotta al Covid che, probabilmente, distrae ulteriormente l’attenzione dell’opinione pubblica rispetto a quel che accade ogni giorno in Africa.

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