Era già cominciato il lungo autunno dell’impero romano, quando Bassiano decise di lasciare questo mondo. Correva l’anno 409. Di lì a poco, le truppe del generale visigoto Alarico, dopo cinque mesi di assedio, riuscirono a penetrare nelle mura della città eterna: aveva così inizio quel dramma umano che va sotto il nome di “sacco di Roma”. L’urbe era inviolata da quasi mille anni, dal tempo in cui i celti di Brenno la fecero capitolare nel quarto secolo avanti Cristo. Con il nuovo saccheggio non cadeva solo una città ben difesa, crollava soprattutto un mito: quello della capitale eterna, quello della razza dominante capace di sottomettere il mondo intero e di pacificarlo con le sue legioni ben disciplinate e con le infrastrutture statali capaci di amministrare una porzione di territorio estesissimo, che andava dalla penisola iberica fino alle porte dello sconosciuto Oriente. La catastrofe non fu soltanto civile, ma soprattutto religiosa e filosofica. La storia custodisce nella sua infinita biblioteca gli strazianti lamenti di san Girolamo, consumato conoscitore delle Scritture, che piange lacrime salate sul destino di Roma: “I singhiozzi mi soffocano le parole; la città che aveva dominato l’intero mondo è stata essa stessa conquistata”. Ma quelle invasioni che avevano gettato nel caos la Roma imperiale e di parecchio rimpicciolito il territorio da lei amministrato, erano ancora un niente se rapportate a ciò che sarebbe successo di lì a poco. I visigoti di Alarico sono sì popolazione barbariche, ma appartengono ad un mondo ancora civilizzato, capace di ricostruire nuove mura sul paesaggio di rovine fumanti lasciato dal passaggio dei suoi lanzichenecchi. Altre invasioni si riveleranno invece ben più nefaste, capaci solo di distruggere e non più riedificare: entità caotiche, dichiaratamente devastatrici, che sembrano fuoriuscire dalla mente dei peggiori incubi dell’uomo. Allora sì che si dovrà piangere la tragedia di ogni avventura umana. In questo tempo di crepuscolo, quasi a presidio del capezzale in cui agonizzava il mondo antico, si ritroveranno uomini tutti d’un pezzo, dei veri colossi, capaci di consegnare ai posteri un’eredità di opera e di pensiero così solida da non temere smentite: Ambrogio, Agostino, il già citato Girolamo. Accanto a loro una pletora di figure ausiliarie, che non ha consegnato alla storia opera di uguale potenza, ma che in fondo contribuisce ad alimentare la stessa corrente di rinascita. Tra queste figure dobbiamo sicuramente annoverare il nome di Bassiano, vescovo di Lodi, la cui vita è strettamente legata (dai pochi dati che la storia ricorda di lui) con le vicende politiche e religiose del suo tempo. È un tempo di decadenza, di lenta decadenza, si diceva. In quest’epoca saranno soprattutto le figure dei vescovi ad assurgere a vere protagoniste della scena ecclesiale. Non saranno sempre loro i fari della cristianità (di lì a qualche secolo saranno soprattutto i monaci ad incaricarsi della rinascita dell’Occidente), ma per il momento sono queste “personalità totali”, come li chiamava un famoso teologo del Novecento, a rischiare con la loro luce ciò che intorno è solo buio. Bassiano fa parte di questa congrega. Nei loro sermoni parlano del mistero di Dio che palpita nelle nostre esistenze. Al centro della vita cristiana collocano Gesù Cristo, trionfante nella sua umanità e nella sua divinità. Questo legame col Nazareno sarà spesso vissuto come schermo all’arianesimo, eresia cui l’Occidente risulterà sempre un po’ incline. Attratti da questo punto di gravità permanente, custodiranno un senso positivo nei confronti dell’esistenza. Nessuno sa quali pensieri popoleranno la loro morte: se affiorasse un senso di delusione nei confronti della vita (Agostino spira mentre la sua città è accerchiata dai barbari invasori), oppure, indomita, palpitasse ancora luce negli occhi, come di chi sa che non tutto muore. Ma se proprio devo immaginarmi qualcosa, credo che san Bassiano, il nostro patrono, non si sia spento come un lumicino. Anche nel letto del trapasso, avrà pensato alla più inscalfibile delle leggi presenti nel vangelo: quella che fa seguire ad ogni apparente sconfitta una prodigiosa vittoria. Il male fiacca la vita umana, qualche volta pare emergere beffardamente vittorioso dall’ultima agonia. Ad esso, però, non si risponde con la resa e con lo sventolio di una bandiera bianca, ma con una determinazione ancora più feroce nei confronti del bene e della vita. Solo gli uomini di speranza osano tanto. Ci riuscirono. E l’esito dei loro sogni trepida ancora evidente, sotto gli occhi di tutti, in quella fiumana di lodigiani che oggi struscia in cattedrale per rendere omaggio all’urna del santo. Se chiedessimo a ciascuno di sviscerare la radice della loro storia, non falliremmo nell’immaginare che ci sia un po’ di tutto. Anche quel po’ di sangue barbarico che Bassiano appena lambì e sognò di convertire, e che a noi, ogni tanto, si rivolta, e ribolle dentro.
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