Giuseppe De Carli: la Chiesa e il giornalismo, i suoi amori

“Ma ti sembra possibile? Non è un’assurdità?”. Eccolo lì, Giuseppe. Seduto alla scrivania ingombra di carte. L’eterna sigaretta fra le dita, nuvole di fumo azzurrino che salgono verso il soffitto. È indignato il mio amico Giuseppe. E, come al solito, non lo nasconde. Chi lo avrà fatto arrabbiare questa volta? Gli occhi puntati dritti in quelli dell’interlocutore, i folti sopraccigli inarcati, il volto un po’ arrossato. Se penso a Giuseppe, lo vedo così. Inutile nasconderlo: Giuseppe De Carli aveva una carattere difficile. Era schietto, a volte fino alla brutalità, e non sapeva che cosa fosse la diplomazia. Lui diceva quello che pensava. E se quello che pensava risultava sgradevole per qualcuno, tanto meglio. Ma Giuseppe aveva anche un cuore grande. Era un generoso, era un uomo buono. La sua schiettezza non era mai offesa gratuita, non era espressione di arroganza. Giuseppe non tollerava la falsità e nemmeno l’ignoranza. Per questo s’infuriava, per questo non le mandava a dire. Quando lo conobbi per la prima volta, alla fine degli anni Ottanta, eravamo entrambi alla Rai di Milano, nella redazione giornalistica regionale. Ma mentre lui stava per prendere il volo verso Roma, per fare il vaticanista del Tg1, io ero appena arrivato dall’Avvenire. Tutto per me era nuovo, e quel giornalista un po’ strano, dal volto vagamente mefistofelico, che non sembrava mai tranquillo ed emetteva fumo come una locomotiva, mi colpì subito. Io ero timido e riservato, lui irruente. Come spesso succede, persone totalmente diverse finiscono per stimarsi. E così, quando anch’io un giorno approdai a Roma, al Tg3, per fare a mia volta il vaticanista, fu facile andare d’accordo. Eravamo diversi anche nel metodo di lavoro. Lui, in occasione delle dirette televisive, si scriveva tutti i testi, e lo faceva a mano, su moltissimi fogli che poi teneva davanti durante i collegamenti. Io invece andavo, come si dice, “a braccio”, e preferivo farmi ispirare dalle circostanze, dalle immagini, dall’atmosfera del momento. Mi guardava col suo occhio accigliato e mi chiedeva: “Ma come fai?”. Ed era anche un rimprovero. Voleva dire: “Mi sa che tu affronti le dirette troppo alla leggera!”.Giuseppe aveva un enorme rispetto per la materia di cui si occupava e per il pubblico al quale si rivolgeva. Per lui l’espressione “servizio pubblico” non era solo un modo di dire. Per questo era così puntiglioso, e per questo non smetteva mai di studiare. Si preparava in modo meticoloso ed era sempre circondato da libri. Aveva studiato teologia, filosofia, lettere, scienze politiche. Ma proprio perché era preparato, gli sembrava di non esserlo mai abbastanza. Naturale che non sopportasse gli ignoranti, i presuntuosi, i pressappochisti. E spesso, alla fine delle dirette, parlava dei libri che aveva letto e che gli erano piaciuti: era il suo modo per rendere onore all’intelligenza e alla preparazione. Faceva parte di due mondi, quello del giornalismo e quello curiale, nei quali l’ipocrisia alligna facilmente e si manifesta spesso. Ma lui l’ipocrisia non sapeva nemmeno dove stesse di casa. Mi è capitato di vederlo criticare e prendere in giro apertamente monsignori e cardinali, così come direttori di giornali e di reti televisive. Lo faceva con garbo e con intelligenza, senza mai risultare offensivo, ma lo faceva! La Chiesa e il giornalismo furono i suoi grandi amori, ai quali si dedicò totalmente, senza risparmio. Durante i viaggi papali, quando mi capitava di incrociarlo, lo vedevo stanchissimo. La sera, con i suoi fogli sottobraccio e la sigaretta tra le dita, si trascinava in camera e non lo si vedeva più fino all’indomani, quando riappariva con i fogli sottobraccio e la sigaretta fra le dita. Mentre i colleghi aspettavano l’ora di cena per andare nei ristoranti a riempirsi di specialità del posto e di alcolici, lui faceva vita da monaco trappista. D’altra parte veniva da una famiglia contadina, e non lo nascondeva. Ecco la radice di quella schiettezza, e anche della sua cocciutaggine. Quando gli veniva un’idea, non c’era modo di farlo tornare indietro. Se ne accorsero i suoi collaboratori di Rai Vaticano quando da un giorno all’altro inventò la lettura integrale della Bibbia, giorno e notte, coinvolgendo schiere di uomini di cultura, ecclesiastici, giornalisti, scrittori, attori, politici. Sembrava una follia, anche perché le risorse organizzative erano limitate. Invece lui, spronando tutti, la trasformò in realtà e fu un successo. Ho detto che scriveva a mano. Non apparteneva alla generazione informatica. Però aveva apertura mentale, e così investì nella comunicazione on line. Era uomo di lettere, legato alla carta stampata e ai libri, ma il giornalismo gli piaceva in tutte le forme e capiva quanto fosse importante utilizzare le nuove tecnologie. Ebbe una grande ammirazione per Giovanni Paolo II, ma credo che il suo cuore battesse ancora di più per Benedetto XVI. Il papa teologo lo affascinava, e gli spiaceva vederlo denigrato dai superficiali e dagli incompetenti. Quando arrivai al Tg1 capii che un po’ si era pentito di aver lasciato il telegiornale per dedicarsi alla struttura Rai Vaticano. Non si sentiva valorizzato. Il mio arrivo, inoltre, gli toglieva un po’ di spazio, perché lui comunque continuava a collaborare con il tg della rete ammiraglia. Così mi chiamò e me lo disse in faccia: “Guarda che io non mi farò da parte”, e il sopracciglio si inarcò più del solito. Giuseppe non era tipo da coltellate nella schiena, così frequenti nel nostro mondo. Lo ringraziai per la schiettezza e gli dissi che gli invidiavo l’ufficio, perché dalla sua finestra vedeva quella del papa. Lui sorrise. Lo ricordo così. Faceva parte di un mondo tramontato? Forse. In ogni caso fu un uomo libero. E la sua lezione, mi sembra, è più valida che mai.

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