Fare la pasta senza il grano dell’Italia

C’è ancora chi si scandalizza del fatto che il grano usato dai pastifici italiani, in particolare del Mezzogiorno, provenga dall’estero. Tutti i porti del Sud - come quello di Bari, dove l’altra settimana sono state scaricate 37mila tonnellate di grano provenienti dall’Oregon, negli Stati Uniti, che si aggiungono alle 43mila tonnellate scaricate da una nave con bandiera messicana - sono méta delle navi di proprietà delle grandi multinazionali del grano. Solo nel porto di Bari, di tonnellate di grano straniero se ne scaricano 89mila tonnellate alla settimana, che vengono usate per la produzione della pasta che va in tavola. Senza quest’apporto, non si potrebbe soddisfare la domanda.È vero che siamo in un mondo globalizzato, dove merci e beni circolano liberamente, ma è pur vero che dire soltanto - come fanno certi industriali della pasta - che dobbiamo liberarci dal “mito” che tutto ciò che è prodotto altrove non è buono, significa solo non guardare la realtà ed eludere il problema, che è ben più consistente e non può essere svilito con una battuta detta in libertà.Allora, qual è il problema che si è creato negli ultimi anni? Partiamo da un dato di fatto: il numero impressionante di aziende cerealicole che negli ultimi 10 anni hanno chiuso nel Mezzogiorno: 224mila. Consideriamo pure la crisi economica degli ultimi 3-4 anni, che ha inciso profondamente su questo dato, ma il numero così alto denota problemi di carattere strutturale che prescindono dalle contingenze, che possono concorrere a farli esplodere, non a determinarli. C’è da considerare, innanzitutto, il disastro provocato dall’inesistenza di una politica europea comune, che da un lato non considera il problema principale, che è quello della sicurezza alimentare dell’Europa, dall’altro non pone gli agricoltori nella condizione di competere sul mercato. Poi, ci sono altri fatti che incidono su questo fenomeno, come ha sostenuto durante un’audizione in Commissione agricoltura della Camera all’inizio di ottobre, il coordinatore della Fima (Federazione Italiana Movimenti Agricoli), Saverio De Bonis: “Le Regioni del Sud una volta erano il granaio dell’Europa con in testa la Sicilia, Puglia e Basilicata. Oggi, prezzi di vendita al ribasso e svalutati rispetto a venti anni fa, costi di produzione in progressivo aumento, mercati poco trasparenti, oppressione fiscale e stretta creditizia, scarsa tutela sindacale e assenza di controlli sui prodotti alimentari, definiscono un quadro molto grave della situazione agricola del Paese e, in particolare, della cerealicoltura del Mezzogiorno”. Secondo De Bonis, l’arrivo in Europa di materie prime di pessima qualità, danneggia la salute pubblica e la bilancia commerciale, mentre avvantaggia solo i profitti dell’industria di trasformazione, che continua ad affermare strumentalmente che il grano italiano è insufficiente a soddisfare i nostri fabbisogni e manca la capacità di stoccaggio, nonostante le misure del Piano cerealicolo nazionale; che il grano straniero è migliore perché è un grano di forza (più proteico), che gli agricoltori italiani non riescono a produrre per garantire la tenuta di cottura; che il made in Italy sta nella ricetta e nello stile italiano con cui si fanno le cose.A tutto questo si aggiunge l’ipocrisia di alcuni industriali, che senza colpo ferire - pur acquisendo la materia prima dalle Americhe piuttosto che dalla Russia o dalla Francia, continuano a spacciare la loro pasta come prodotto della cultura mediterranea. Liberi d’importare, ma anche obbligati - per rispetto della verità e per evitare pubblicità ingannevoli - a scrivere sulle etichette che la maggior parte del grano che usano non ha niente a che fare con il Sud.

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