È un’Italia cambiata nel profondo

Cambiamento è la cifra con la quale descrivere la popolazione italiana e si può leggere il processo demografico italiano. Questa è una delle caratteristiche emerse dalla descrizione della situazione del Paese, data dall’Istat nel Rapporto annuale 2016. Ne indichiamo tre: la sovrapposizione di sei generazioni, la transizione alla vita adulta e il degiovanimento. Se qualcuno vorrà prevedere il futuro del Paese dovrà iniziare a combinarli insieme.Il primo cambiamento, il più profondo, è nella sovrapposizione di sei generazioni: una conseguenza del processo di allungamento della vita media e delle aspettative di vita. Ci sono sei generazioni che si confrontano tra loro. Quella delle persone nate nel primo dopoguerra che hanno vissuto la ricostruzione del Paese dopo la seconda guerra mondiale; poi ci sono due generazioni del baby boom: che hanno goduto di un forte impatto numerico sul resto della popolazione la prima, la generazione dell’impegno, ha partecipato al miracolo economico e la seconda, la generazione dell’identità, è riuscita a condizionare con il suo peso alcune trasformazioni culturali in Italia; poi c’è la generazione di transizione costituita da quelli nati negli anni del terrorismo e delle battaglie ideologiche: tra loro ci sono quelli che per primi hanno conosciuto l’impatto di un diverso mondo del lavoro; di seguito viene la generazioni dei millennials, segnata dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine del blocco sovietico, quella che ha iniziato ad avere vent’anni dopo il 2000, e ha subito più di tutte le altre le conseguenze della crisi economica; infine c’è quella che viene definita la generazione delle reti quella che si costituisce dentro le innovazioni tecnologiche e digitali. La compresenza di sei gruppi relativamente consistenti nella stessa società porta a un confronto tra diversi linguaggi e chiavi interpretative della realtà, perché ognuno per dirla con un proverbio è “figlio del suo tempo”.Il secondo cambiamento è nello slittamento della transizione alla fase adulta della vita. Lo dimostra il fatto che, mentre nel 2015 il 70,1% dei maschi tra i 25 e i 29 anni e il 54,7% delle femmine vive con i propri genitori, solo nel 1995 le quote erano rispettivamente del 63,8% e del 39,8%. Certo si rimane nella casa dei genitori più a lungo per diverse ragioni: si studia di più, è più difficile inserirsi in modo stabile nel mondo del lavoro, il mercato abitativo ha costi molto alti; però ci sono altre conseguenze che portano ad un altro cambiamento che tocca la struttura delle famiglie: ci si sposa meno (ma anche si convive meno) e si fanno pochi figli.Il terzo cambiamento: il degiovanimento: il fatto che in Italia ci siano pochi giovani sul totale della popolazione, a parere di chi scrive, è proprio qui. Ci si sposa meno. Si rischia meno nella vita di coppia che in passato. E ancora meno si diventa padri e madri. La questione non risiede tanto, come vuole la vulgata nell’instabilità coniugale, che certo è aumentata: ma su 1000 matrimoni celebrati nel 2003 dopo dieci anni 882 erano ancora in piedi (certo nel 1975 prima degli effetti della Legge sul divorzio erano 959). La prima questione è che a metà degli anni Novanta il numero dei single era del 3,8% oggi è del 7,9%: quasi 5 milioni di persone non si sono sposate, né vivono in coppia. Altra questione, sempre legata alla posticipazione della fase adulta della vita, è l’innalzamento dell’età media al parto che se nel 1976 era di 27,7 anni nel 2015 si stima essere di 31,6 anni. Questo cala il numero di figli per donna che nello stesso periodo passa da 2,11 a 1,35.

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