E adesso quale modello di Europa?

Non è solo questione di “più” o “meno” Europa, ma di “quale” Europa. Il discorso sullo stato dei rapporti tra Regno Unito e Ue, pronunciato il 23 gennaio da David Cameron, ha messo nero su bianco il concetto d’integrazione secondo il premier inglese, la quale tende sostanzialmente a limitarsi alla creazione di un mercato unico, in cui merci e capitali possano circolare liberamente, conservando però le altre barriere che hanno segnato per secoli la storia continentale, da quelle politiche a quelle sociali e culturali.“Prima gli inglesi, poi gli altri”, si potrebbe sintetizzare. Una visione oggettivamente legittima, probabilmente condivisa dalla maggior parte dei cittadini britannici, riconducibile alla tradizionale Europa degli Stati nazionali. Un’Europa nella quale non hanno ovviamente cittadinanza né l’euro né l’unione bancaria e tanto meno la governance economica e finanziaria, né il Fiscal compact o il fondo salva-Stati e neppure Schengen, né la convergenza su uno standard minimo di “diritti sociali” (si pensi agli opt out rispetto al Trattato di Lisbona), non la coesione territoriale, forse nemmeno una univoca politica energetica o ambientale… Diversa è la posizione di chi sembra aver fatto propria la lezione derivante dalla globalizzazione: le enormi sfide che ci consegna questa epoca - da quella economica alla demografica, dalla culturale alla ambientale, senza trascurare i nodi dei diritti fondamentali o delle trasformazioni profonde in atto nel mondo arabo, in Cina, in India, in Sudamerica… - reclamano un’Europa coesa, rafforzata, messa in grado di restare sulla scena internazionale come un attore protagonista, non come uno spettatore canuto e attardato.L’incontro faccia a faccia di Davos, al World Economic Forum, tra Cameron e Angela Merkel, ha posto di fronte, anche visivamente, le “due Europe”, i due modelli che si confrontano in questo frangente. La cancelliera tedesca, esponente del Ppe e comunque riconducibile a un’area politica moderata (forse in questo non distante dai Tories inglesi), ha ben altra prospettiva dello sviluppo economico e sociale per il suo Paese e per l’Ue nel suo complesso. Tra lei e Cameron s’inserisce la cosiddetta “economia sociale di mercato”, che, lungi dall’essere uno slogan, è una modalità d’interpretare la dimensione economica accanto a quello sociale e, dunque, culturale. Libero mercato sì, ma corretto da provvedimenti a carattere redistributivo; rigore di bilancio, certo, ma anche crescita, occupazione e un welfare in grado di determinare politiche inclusive verso la parte di popolazione meno tutelata. Il modello di sviluppo che ha in mente la Merkel, e che in buona parte corrisponde al sistema francese, italiano, spagnolo e di vari Paesi dell’Est Europa, rilanciato lo scorso anno da un ampio documento della Comece (Commissione degli episcopati della Comunità europea), s’inserisce nel quadro di mezzo secolo d’integrazione comunitaria, dalla quale eredita il ruolo orientativo e regolativo della politica rispetto all’economia e il principio cardine della solidarietà: elementi, questi, che non collimano con il profilo dell’Ue tracciato da Cameron con il suo aut-aut referendario.Molte voci levatesi nei giorni scorsi in risposta al proclama di Londra si sono concentrate su un punto: l’integrazione europea prevede vantaggi e responsabilità, e i primi non possono essere alimentati o reclamati senza la seconda. È questo il punto sul quale Cameron dovrà chiarire la propria posizione, e ben prima del referendum del 2017.

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