Due rebus: il debito e il Meridione

In tempi normali, le recenti decisioni prese dal governo Monti (le cosiddette “liberalizzazioni”) sarebbero state appunto decisioni di routine normate da qualche regolamento amministrativo o, al massimo, da leggi approvate da un Parlamento attivo pure nello scriverle nelle commissioni. Ma questi non sono tempi normali; eccezionale è pure il governo e il sostegno parlamentare che ha, e c’era infine bisogno di qualcosa di apparentemente eclatante per far capire all’opinione pubblica italiana che molto si sta facendo. Non solo tasse, ma anche “riforme”. Orbene, il pacchetto-liberalizzazioni approvato dal governo Monti e ora all’attenzione del Parlamento, ha mosso – sulla scacchiera economico-sociale italiana – diversi pedoni: ci saranno più farmacie, più notai, forse più taxisti; i professionisti ci faranno un preventivo scritto dei lavori richiesti; qualche pompa di benzina riuscirà a scontare di più i carburanti. Sono stati eliminati alcuni lacci e lacciuoli; è stata soprattutto avviata la pratica di scorporo della rete del gas dal maggior produttore dello stesso, l’Eni.

Le pratiche più spinose non sono state toccate: banche, altre reti infrastrutturali, Poste, frequenze tivù. Rimarranno riserve indiane o saranno toccate in un secondo giro di valzer?

Diciamo che il valore simbolico supera di molto quello economico. Si è fatto vedere all’opinione pubblica che si fa, che si tolgono croste indurite, che nulla può considerarsi esentato da contribuire più al bene comune che a quello particolare. Le stime sull’aumento del Pil, dei redditi, dell’occupazione lasciano il tempo che trovano. La speranza è che siano vere, per quanto appaiano ottimistiche.

Ora tocca agli strumenti che regolano il rapporto di lavoro: leggi e contratti. La materia è vasta, importante, “calda”, ammorbata di ideologia. Sarà difficile trovare la quadratura del cerchio, ci sono obiettivi difficili e a volte contrapposti: come dare meno precarietà al lavoro giovanile, senza ingessarlo e quindi nei fatti ostacolarlo? Come superare certi diritti che hanno alcune fasce di lavoratori (illicenziabilità, anche se nei fatti…) che taluni sostengono essere un fattore che ostacola le nuove assunzioni? Come tutelare efficacemente – superando la statica cassa integrazione – chi perde un lavoro, soprattutto se ha una certa età e una scarsa formazione professionale? Infine: come far lavorare di più i giovani – qui la percentuale più alta di disoccupati – e di più pure gli anziani, viste le norme previdenziali che allungano l’età lavorativa, in un contesto di crisi economica e di spostamento di posti di lavoro dall’Italia ai Paesi a basso costo di manodopera?

Più che Monti, ci vorrebbe il mago Merlino. Vedremo all’opera il primo, e la responsabilità dei partiti politici che lo sostengono.

Ma tutto ciò rimarrà fumo, per quanto innovativo e profumato, se nel forno dell’azione politica non si metterà l’arrosto. Non si affronteranno cioè i due nodi scorsoi che rischiano veramente di soffocare l’economia e la società italiana.

Anzitutto il debito pubblico. Va affrontato, va ridotto. S’innescherà un circolo virtuoso che vale dieci volte più di tutte le liberalizzazioni messe in atto. Il ministro Passera sta mettendo a punto un piano difficile, ma interessante e forse vincente.

Quindi, va affrontato il Mezzogiorno italiano, la cui economia è in stato comatoso. È qui che si possono creare ampi spazi di crescita, il Nord è molto più vicino a Stoccarda e Rotterdam che a Benevento e Crotone.

Vaste programme, avrebbe chiosato De Gaulle. Ma la questione è ineludibile, si devono creare opportunità di redditi veri, far crescere la ricchezza locale, le occasioni di lavoro; ampliare gli spazi della legalità per ridurre progressivamente quelli delle malavite organizzate e dei loro affari sul territorio. Senza peraltro continuare a riversare infruttuosamente al Sud risorse che il Nord non ha più la possibilità né la voglia di dare.

Se si sbaglieranno metodi e tempi, si rischia sicuramente di creare nel Mezzogiorno le condizioni per una nuova, grande ondata emigratoria che non saprebbe più dove riversarsi. O di sollevamenti popolari di cui abbiamo già avuto un primo assaggio. Alla peggio, di realizzare quelle condizioni che, all’alba degli anni Novanta, interessarono la vicina Jugoslavia, con un ricco nord che non volle più stare assieme ad un povero e “drenante” sud.

Tutto ciò è da impostare subito, ora, senza attendere. Fa specie aver letto degli sforzi del viceministro Vittorio Grilli (in realtà un economista stimato nel mondo) andato in tournee a convincere analisti finanziari e investitori che l’Italia non è la Grecia e che si sta facendo di tutto per evitare tale metamorfosi. Sentendosi troppe volte ribattere: sì, oggi ci siete voi. Ma domani, quando torneranno “quei” partiti?

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