Due milioni di giovani italiani Neet

Per capire il futuro di un paese si possono utilizzare tanti indizi. Certamente gli indicatori economici sono utili. Ma se vogliamo capire come sarà il domani, è l’osservazione della condizione del mondo giovanile a far intravedere le contraddizioni che esistono tra le affermazioni di principio presenti nel cosiddetto “discorso pubblico”, e la concretezza delle scelte che un paese compie.

La questione giovanile, in questi ultimi anni, è stata narrata attraverso la grande metafora del call center, luogo per eccellenza di un lavoro potenzialmente temporaneo, flessibile nelle modalità di prestazione, in una parola precario.

Qualcuno ricorderà i tentativi iniziali – per fortuna non troppo reiterati – di considerare la flessibilità addirittura come una caratteristica del nuovo mondo giovanile, alla ricerca di percorsi personali e professionali non dominati dalla eccessiva stabilità di un tempo.

In seguito, e finalmente, la precarietà delle nuove generazioni

– nel contempo esistenziale e sociale – ha finito per provocare almeno un dibattito, dai tratti ambivalenti.

Da una parte c’era chi addossava una parte delle responsabilità, se non tutte, ai giovani stessi, che vivrebbero questa condizione anche a causa di una sorta di incapacità a decidere, ad affrontare le sfide della vita, a trovare soluzioni nuove a problemi nuovi.

Dall’altra parte c’era chi stigmatizzava un mondo economico e del lavoro, in sintesi un “mercato”, che marginalizza in blocco una generazione già gravata dalle iniquità di un sistema previdenziale che – schematizzando – difende i vecchi e punisce i giovani.

Tutto questo prima della devastante crisi economica del 2008, che sta demolendo molte delle certezze politico-economiche del mondo, così come si era costruito nei “30 gloriosi” del dopoguerra e della ricostruzione, gli anni in cui i paesi europei occidentali crescevano con una media annua del 4,5% di Pil.

In realtà i nostri giovani stanno già vivendo in questo “nuovo mondo”: certamente affascinante per quanto concerne le nuove tecnologie e le opportunità di mobilità fisica e virtuale a esse connesse, ma segnato da una nuova età dell’incertezza circa la costruzione del proprio futuro personale e sociale. L’età dei diritti, il modello sociale europeo fondato su prestazioni di welfare adeguate ai bisogni e sulla ricerca della piena occupazione – vale a dire con tassi di disoccupazione fisiologica intorno al 3% (Nda: non è un refuso) –, ha ormai cominciato a funzionare secondo una sorta di universalismo selettivo, secondo l’età dei destinatari.

Il caso italiano – non certamente il caso di un paese pienamente rispondente al modello europeo – aggiunge le proprie, gravi disfunzioni a questo non esaltante quadro di prospettiva.

Un ragazzo italiano dei nostri giorni attraversa – nel suo viaggio verso il futuro – una scuola dell’obbligo pesantemente ridimensionata da successivi tagli di spesa (dunque, di quantità e di qualità dei servizi offerti) e che fa emergere precocemente, in barba alle previsioni costituzionali di gratuità, la questione delle disuguaglianze, facendo gravare sulle famiglie costi occulti (i cosiddetti “contributi volontari” e la privatizzazione del tempo pieno) o espliciti (i corredi scolastici).

Affronta poi una scuola superiore anch’essa ridimensionata in termini di offerta formativa: già dall’anno scorso scolastico si è registrato un pesante ridimensionamento (o abolizione, nei casi peggiori) delle forme di supporto scolastico agli studenti in difficoltà in termini di mero apprendimento, ciò che comporta la sostanziale privatizzazione del contrasto della dispersione scolastica.

L’università pubblica – splendido esempio di fiscalità premiale per i ricchi, dati gli scarsissimi differenziali nei costi di accesso tra le diverse classi di reddito – ha visto già nell’anno 2009-’10 una riduzione delle iscrizioni di giovani appartenenti ai ceti meno abbienti: come spiegherebbero gli economisti, le crisi economiche non solo riducono i redditi, ma anche le aspettative rispetto alla crescita del proprio reddito, facendo eliminare investimenti considerati inutili o insostenibili.

Basta questo scenario a produrre come effetto i due milioni di giovani italiani che sono Neet? Ovviamente no, ma l’intreccio – che può essere perverso o virtuoso – tra i meccanismi di costruzione delle aspettative e le opportunità offerte dal contesto socio-economico è noto: se la scuola è percepita più come un percorso a ostacoli, o un luogo di frustrazioni, invece che una risorsa; se il mondo del lavoro appare come un moloch che divora il tuo tempo e le tue speranze pure illusorie, invece che uno dei modi per sentirsi parte di questo mondo, allora la prospettiva rassicurante di una “sospensione”, seppure gravida di incognite, può rappresentare una soluzione realistica.

Un segmento di generazione con

basse qualifiche, scarsa socializzazione – nel senso più ampio e forte del termine – e scarse aspettative rappresenta un’oscura incognita, per sé e per il paese.

Questi giovani Neet sono un potenziale problema in termini di inserimento professionale e di rischi di esclusione, costituiscono una minaccia per le dinamiche di coesione sociale, rappresentano una grande domanda, in termini politici, civili ed ecclesiali, in particolare per le comunità cristiane che intendono interrogarsi seriamente sul tema dell’educare.

Ci sarà uno spazio, in un paese segnato duramente dalla ricerca del pareggio di bilancio, anche per questi giovani, e per le questioni che pongono?

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