Da Mairago alla terra africana: padre Mazzucchi a 82 anni pronto a tornare in Kenya VIDEO

Il missionario della Consolata il 21 settembre andrà di nuovo in Africa: «Qui il Covid ha colpito duro. Scuola e lavoro per crescere»

«Mi hanno concesso ancora tre anni in Kenya». Alza un poco il sopracciglio, padre Orazio Mazzucchi, mentre sorride con un angolo della bocca. Parla della sua Congregazione. Poi accenna alla porta di casa, nella cascina di Mairago. «Qui mi prendono in giro: ho 82 anni. Però i miei nipoti mi stanno insegnando ad usare internet sul cellulare».

Per il Kenya, dove è missionario dal 1974, padre Orazio ripartirà il 21 settembre. Propone subito di usare il “tu”. Un uomo che ascolta le confessioni in lingua kiswahili, si è fatto il covid a Nairobi e sta cercando fondi per un trattore e un politecnico. «Io sarei tornato volentieri a Matiri, dove sono stato per ventisei anni, parlo il kimeru. Ma i miei superiori mi hanno detto: o vai in Italia, o vai dove ti diciamo. E allora sono arrivato a Kampi Garba. Mi danno ancora tre anni».

E torna quel sorriso di chi la sa lunga. Ma cominciamo dal principio.

Perché “di Mairago” e perché “missionario della Consolata”?

«Sono nato a Basiasco il 13 maggio 1940 e sono originario di Mairago. In famiglia eravamo otto maschi e due femmine. Io sono il terzultimo. Avevo le zie qui a Mairago. Da piccolo non volevo andare a scuola. Però andavo al pascolo d’inverno, al freddo, da solo. Allora ho detto: vado a scuola. Il parroco di Mairago aveva dei nipoti che erano in contatto con i missionari della Consolata e così sono andato ad Alpignano ( Torino , ndr) alla scuola tecnica. Due settimane dopo con un ragazzo di Bergamo avevamo progettato la fuga perché non si mangiava niente, avevamo fame. Ci davano solo un po’ di the al mattino. Siamo scappati ma ci hanno ripescato. Ho fatto per quattro anni le scuole tecniche. Ho sentito che si poteva diventare missionari della Consolata. Sono entrato nel Seminario con le vocazioni adulte. C’era chi aveva già fatto il servizio militare, chi l’idraulico, chi l’elettricista. Quando sono arrivato mi hanno detto: “Han chiuso l’asilo?”. Io aiutavo qualcuno a studiare filosofia, perché non è materia facile».

Padre Orazio Mazzucchi, dal 1974 missionario in Kenya. Video di Raffaella Bianchi

Invece tu l’avevi studiata.

«Ho fatto il liceo – ginnasio a Rosignano Monferrato, a Torino ho studiato teologia per cinque anni. Avrei voluto andare in Brasile. Invece mi hanno mandato a Bevera, in Brianza, a fare il formatore. A Roma ho studiato Scienze dell’educazione; all’Antonianum di Roma mi sono laureato in Filosofia; a Padova in Sociologia; ho studiato filosofia a Milano ma non l’ho finita. Mi hanno mandato a Montebelluna (Treviso) ancora formatore. Fino a quando sono partito per il Kenya».

Era il 1974.

«A giugno. La prima missione è stata Timao con padre Roberti, già superiore alla casa di Bevera. Una zona a influenza inglese, con i grandi “farmisti” ( da farm, “fattoria”, ndr). Non avevamo auto né moto e ci spostavamo a cavallo. Poi mi hanno mandato a Meru per tre anni, al Seminario. A Timao abbiamo aperto una scuola secondaria, sono stato preside e parroco. Nel 1986 mi hanno inviato a Matiri, nel Meru. Per sei anni ho anche seguito la comunità italiana di Malindi quando c’era il vescovo Emanuele, cappuccino di Malta. Ora sono a Kampi Garba».

Un poco più a nord di Matiri.

«Matiri è più o meno casa mia. Ho parlato il kimeru per quarant’anni. Kampi Garba invece è missione nuova per la Consolata, fino a due anni fa c’erano i preti di Iglesias. Lavoriamo con i Turkana, gente alta, che parla la lingua turkana. Io leggo il kiswahili, preparo la predica e me la faccio tradurre per poterla dire la domenica. Ascolto le confessioni in kiswahili e rispondo in inglese. Tra i Turkana molti non parlano nemmeno inglese. All’inizio ho chiesto: è una chiesa di vedove? Venivano solo molti ragazzi e le donne».

Dove sono gli uomini?

«Ufficialmente sono pastori. In realtà al pascolo mandano i bambini mentre loro girano, fanno figli che lasciano alle donne. Ho inviato tre ragazzi e due ragazze al politecnico di Matiri perché imparino un mestiere, ci sono laboratori di falegnameria e meccanica. Anche a Kampi Garba vorrei avviare un politecnico ma non ci sono fondi. Ho avviato una “Catholic men association” e adesso in parrocchia ho settantacinque uomini. Sto proponendo l’agricoltura, vorrei per loro una formazione che dia stabilità alla famiglia. Altrimenti le donne sono a casa da sole con i figli e spesso con i figli dei figli. Sto lanciando la coltivazione del girasole, ci vorrebbero una macchina per produrre olio e un trattore».

Anche per questi mancano i fondi?

«Sì. I missionari della Consolata portano avanti insieme lavoro umanitario, sviluppo sociale ed evangelizzazione. Umanizzando l’uomo puoi anche renderlo libero per essere cristiano. Vorrei lanciare il progetto dell’apicoltura. Io sono un discendente di don Giovanni Fasoli: vorrei dare piccole arnie alla gente, al posto di quei tronchi vuoti che vengono loro rubati. E avviare un allevamento di capre da latte. Sarebbe un sostegno per l’intera famiglia. Ma tutto è da fare pian piano perché i Turkana non sono interessati».

Verrebbe da dire che sugli obiettivi dell’Agenda 2030, padre Orazio è attivo da tempo. Hai lavorato anche per dare elettricità e acqua potabile.

«Abbiamo realizzato diversi pozzi. A Kampi Garba c’è la scuola elementare con 400 bambini e l’asilo con 200, le suore “Holy Angels” vengono dallo Sri Lanka. C’è un dispensario. Ci vorrebbe un lavoro sanitario sul territorio, con infermieri – ce ne sono kenioti e altri da Iglesias – che raggiungano la gente per vaccini, igiene, malaria, febbre gialla».

Avete risentito del covid?

«Moltissimo. Ci sono pochi vaccini e molti muoiono in silenzio, soprattutto tra i Turkana. Aumentano le vedove. Io stesso ho preso il covid, per un mese e mezzo sono stato prima in ospedale poi nella casa di Nairobi».

Vorrei chiederti una parola sulla fedeltà.

«Noi missionari della Consolata siamo impegnati a vita, lo consideriamo normale. Nella mia comunità siamo in tre della mia classe, uno più giovane e altri africani. A Nairobi c’è un grosso Seminario, vengono anche da Uganda, Tanzania, Burundi e Mozambico: sono inviati per il mondo, ma dopo quattro o cinque anni vogliono tornare a casa. Oggi la continuità è un problema. Io? Figurati che non volevo tornare in Italia. Ho ancora il desiderio dello sviluppo missionario, umano, sociale e cristiano. Come i miei hanno lavorato per tutta la vita in un’azienda agricola, io lavoro per tutta la vita nell’azienda del Signore».

Hai sempre vissuto un ambiente internazionale.

«I missionari della Consolata sono in Kenya dal 1902, un anno dopo la fondazione. I primi sono entrati dalla Somalia, vestiti da business men».

Al voto del 9 agosto è stato proclamato presidente William Ruto.

«È buona cosa. È accettato da tutte le tribù».

A proposito delle tribù. Ci parli di quelle che conosci?

«Nel nord non piove da due anni. Verso la Somalia c’è siccità e grande fame. Rubano il bestiame, si sparano a vicenda. Un gruppo di Borana ha mandato dei cammelli nel Meru, che è più verde. Ne hanno uccisi tre. Per vendetta i Borana hanno ucciso cinque persone. I Samburu invece portano via le capre ai Turkana. I Turkana vivono sulle terre che prima erano dei Samburu, ma è proprietà demaniale. Si spara e si porta via il bestiame. Così fanno i Rendille, i Gabra e altri. La tv fa vedere campi di bestiame morto. Tutto questo porta a sbandamento anche spirituale e familiare. Ecco perché se si mandano i ragazzi a scuola, prendono un’altra via. Volevo mandare un ragazzo all’università, ma l’hanno ucciso».

Qualche anno fa diversi giovani della diocesi di Lodi sono venuti a trovarti.

«Don Peppino Bertoglio a San Bernardo aveva un bel gruppo, erano persone formate e con spirito missionario, sapevano di venire a fare servizio. Dobbiamo creare valori nuovi nella gente. Un valore da far rifiorire è quello laicale, l’impegno pastorale e missionario come impegno di vita cristiana. Penso a India, Giappone… Sai che papa Francesco ha fatto il primo cardinale della Consolata? Ha 46 anni, vive in Mongolia, 1300 cristiani. Vorrei ribadire l’impegno missionario della Chiesa: in Italia, nella diocesi di Lodi, nel laicato. Un mese nelle comunità locali fa bene a noi e fa bene a quelle persone. A Matiri io ho goduto di questo. La missione non è mia, la missione è di tutti. Tutti hanno diritto di venire, testimoniare, questa è la Chiesa. E chi non può spostarsi, mandi il suo aiuto per formare i ragazzi alle scuole elementari e tecniche: è fondamentale».

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