Come ti legalizzo l’illegale

Merita molta attenzione la decisione maturata in seno all’Ufficio Statistico dell’Unione Europea (Eurostat) di inserire, ai fini della valutazione del Prodotto interno lordo (Pil), le attività criminali, che finora erano escluse dal sistema europeo dei conti nazionali. Il principio al quale i Paesi membri hanno l’obbligo di conformarsi dal mese di settembre è che le stime devono comprendere tutte le attività che producono reddito indipendentemente da ogni valutazione di ordine legale. Il risultato immediato è ovviamente un aumento della ricchezza nazionale e dei principali parametri economici e questo non può non fare piacere a Paesi dall’immagine opaca e i conti dissestati, che improvvisamente si scoprono più ricchi e meno inguaiati di quanto vogliono far credere i guru dell’economia, la stampa e le opposizioni parlamentari. Tale decisione sembra avere una connotazione tecnica per addetti ai lavori, ma non è così. Essa coinvolge importanti aspetti sociali, culturali e antropologici. La parificazione dell’economia illegale a quella per così dire sana e onesta legittima la ricchezza prodotta con mezzi illeciti. Insomma, c’è chi si guadagna il pane producendo o vendendo automobili, lavatrici, servizi e oggetti vari e chi, invece, campa estorcendo denaro a bottegai e commercianti, taglieggiando poveri immigrati, vendendo droga o riempiendo i marciapiedi di prostitute. Non è una barzelletta o uno scherzo da burloni, ma una notizia vera, che ha il crisma dell’ufficialità ed è stata ampiamente riportata dai quotidiani e dalla stampa tecnica. D’ora in poi tra il mondo del malaffare e il mondo dell’onestà non ci sarà alcun discrimine, e tanto meno la ricchezza prodotta con mezzi vietati dalla legge potrà essere oggetto di riprovazione o condanna. Il criterio non è poi tanto nuovo: i soldi sono soldi, indipendentemente da come sono stati fatti o guadagnati. Lo stesso vale per ogni giudizio sulla consistenza del Pil. Se questo si mantiene alto e dà credito e prestigio al nostro Paese, poco importa indagare come è stato prodotto. Ne consegue una considerazione di rilevante spessore sociale e civile. La parificazione dell’economia criminale potrebbe comportare l’abbandono della lotta alla mafia. Che senso ha combattere le organizzazioni del crimine se esse contribuiscono in modo determinante alla ricchezza della nazione? Ma ci sono aspetti ancora più inquietanti. Se l’economia ristagna nella recessione, come avviene in questa delicata fase congiunturale, come sfuggire alla tentazione di fare impennare il Pil estendendo le attività criminali? Il sesso, la droga e il contrabbando possono darci una mano a uscire dal tunnel della crisi. Ma anche Il cemento, la speculazione edilizia, il gioco d’azzardo, le opere pubbliche e l’immigrazione sono settori che si prestano molto bene a realizzare tale perverso disegno.Resta da capire perché l’Unione è pervenuta a una decisione così paradossale. Io un’idea ce l’ho. La lotta alla mafia registra da qualche tempo successi clamorosi, cadono centinaia di teste criminali, arresti e confische di beni sono all’ordine del giorno. Ma la mafia è sempre là, salda e torreggiante, anzi secondo i bene informati non è mai stata in tanta salute, come confermano i numeri: l’economia criminale vale, secondo stime accreditate, decine di miliardi di euro e rappresenta l’11% del Pil italiano. E allora, visto che non si riesce a sconfiggerla o a darle il colpo di grazia, tanto vale accettarla e legittimarla, con vantaggi indiscutibili sul fronte nevralgico dell’occupazione, della ricchezza nazionale e del benessere sociale. Come diceva una vecchia réclame che spopolava su Carosello: tutto fa brodo! Quello che invece non so spiegarmi è perché l’Unione Europea ha preso nei confronti della mafia una decisione diametralmente opposta a quella radicale e coraggiosa di Papa Francesco.

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