Chi sta avvelenando la scuola

Che alcuni docenti approfittino della loro funzione per fare politica anche a scuola non è una novità, ma che istighino i ragazzi alla violenza questa sì che è una novità e per giunta alquanto preoccupante. Un recente articolo a firma di Lorenzo Sani sul Quotidiano Nazionale, inviato dal giornale in Val di Susa, ha messo il dito sulla piaga, raccogliendo una toccante testimonianza. È lo sfogo di un imprenditore del posto la cui unica colpa è stata quella di aver accettato le regole del sistema fatto di gara d’appalto, aggiudicazione e conseguente avvio dei lavori. La questione della Tav (Treno ad alta velocità) ha trasformato negativamente il clima della valle fino a generare distacco, diffidenza, sospetto, sfociati in una guerra di tutti contro tutti. Un clima che ha diviso famiglie, ha rotto amicizie, ha seminato odio tra persone con pareri contrapposti; un clima che ha creato anche una cultura della violenza nelle scuole tra ragazzi, piccoli e grandi, testimoni di accese diatribe che, fatte proprie, sono riuscite a imporsi là dove non sono riusciti i principi ispiratori dei valori educativi. Gli attivisti violenti, la cui violenza viene accuratamente edulcorata da certi insegnamenti, hanno conquistato il cuore dei ragazzi, sono diventati dei punti di riferimento sotto le false sembianze di uno pseudo «patriottismo» di maniera additato purtroppo a esempio di lotta civile. La cronaca, invece, dà ragione a chi sostiene che talvolta lo scontro è andato oltre ogni limite fino a diventare vera e propria guerriglia tra chi difende la legalità e chi vuole imporre con la forza le proprie convinzioni. In questo bailame è difficile pensare che un ragazzo delle scuole medie o uno studente delle superiori possa farsi delle idee autonome senza subire dei forti condizionamenti, ed è proprio ciò che è successo nelle varie scuole della valle. Un territorio dove la discordia è di casa, dove giovani e giovanissimi, imitando in questo gli adulti, si recano presso il cantiere a lanciare pietre e a sfidare le forze dell’ordine. Da queste parti l’odio ha preso il sopravvento. Odiare le istituzioni è cosa scontata, quasi doverosa; odiare i rappresentati dell’ordine pubblico è cosa ammessa e giustificabile; odiare l’altro che la pensa diversamente è cosa normale perché fa parte delle relazioni sociali. Questo clima rende l’ambiente scolastico pesante, fatto di strani annunci forieri di torbidi e rancorosi comportamenti. Se quello dei professori che sconfinano nella complicità ideologica è un problema serio più volte segnalato dalla stampa quotidiana, quello del disagio adolescenziale è un problema drammatico poiché compromette grandi valori come equilibrio, democrazia, libertà, giustizia ovvero i fondamentali diritti dei cittadini. Tuttavia mi pare giusto fare una doverosa precisazione. Va dato massimo rispetto alla libertà di insegnamento, come massimo è il rispetto da riconoscere alla persona che deve sentirsi libera di esprimere le proprie opinioni senza vincoli o subordinazioni. Ma un conto è vivere nella piena libertà l’esercizio delle proprie funzioni, altro è approfittare del ruolo che si ricopre per influenzare i comportamenti e ricorrere a striscianti condizionamenti pur di offuscare o indebolire il pensiero e la libertà altrui. Ci sono insegnanti pronti a stendere un «letto di Procuste» pur di fare dell’omologazione una legge naturale, quasi ascetica per dare alle proprie affermazioni valore e spazio che altrimenti non avrebbero. Sono concetti tra loro inconciliabili che finiscono per cozzare e per creare situazioni intollerabili. Sappiamo di insegnanti che sconfinano nel penale, nella collusione, nell’incertezza, nella debolezza, o anche di insegnanti che creano smarrimenti, esitazioni, che bruciano un vissuto quotidiano ritenuto, a torto, troppo giovane per camminare con le proprie gambe o troppo debole per sottrarsi alle prepotenze e agli abusi altrui. Non di meno conosciamo insegnanti che sconfinano nella prepotenza offerta come fermezza, nell’eccesso offerto come rigore, nell’insensibilità offerta come equilibrio, scambiando tutto questo per autorevolezza. Ma questa è tutt’altra cosa. Preoccupa non poco la situazione segnalata da Lorenzo Sani che ha il merito di aver dato spazio a un problema che non è solo di ordine pubblico, ma dal momento che vede il coinvolgimento di scolari e studenti, è anche e soprattutto di ordine educativo. Certo qualcuno mi potrebbe obiettare: chi mai non è stato un tantino «rivoluzionario» da ragazzo? E’ vero. Oggi parliamo di ragazzi col casco integrale e magari con la maschera di «Anonymous», ieri siamo stati hippy con capelli lunghi, basettoni e giacche alla militare. Ma poi il tempo passa e questo vale per tutti. Le cellule invecchiano, i neuroni scompaiono, il capello s’imbianca e tutto si ricompone. E questo vale per i ragazzi di oggi e a maggior ragione per i ragazzi di ieri, uomini attempati oggi. Tuttavia un problema rimane. Come evitare che certi errori possano incancrenirsi fino a sfociare in odio. Su questo probabilmente qualcosa di diverso hanno da dire i ragazzi di ieri. Si portava più rispetto ai genitori, ai docenti, alle istituzioni, mentre idee partecipative o comportamenti goliardici facevano parte del repertorio quotidiano. Oggi il rapporto con i genitori è più complicato, quello con gli insegnanti più compromesso, con le istituzioni è conflittuale e tra coetanei vige la legge del più forte. E se una volta il vantarsi di qualcosa era un fatto normale tra coetanei, a caratterizzare la relazione tra ragazzi oggi è la volgarità o il sopruso. Un tempo ballisti, oggi bullisti (mi si passi il neologismo). Ricordo un carissimo amico che alle superiori si vantava sempre di godere delle ”amicizie” di tante ragazze (beato lui). Un giorno, eravamo studenti universitari, passando davanti al nostro caro istituto di un tempo che fu, piuttosto divertito mi disse in latino una delle iscrizioni parietarie che aveva letto su un libro che parlava della Pompei proibita: «hic ego puellas multas futui», un modo soft per dirmi «io, qui, mi sono fatto molte ragazze». Era la sua solita vanteria. Oggi qualcuno passando davanti a quello che fu un tempo il proprio istituto, potrà al massimo dire «io, qui, ho mandato uno al pronto soccorso».

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