Beppe Grillo si è perso nella Rete?

Egregio direttore, e se Grillo e i Cinque Stelle, con queste elezioni europee, si fossero anche “persi nella rete”? Nella ridda di commenti seguiti ai dati elettorali di domenica e lunedi scorso c’è un elemento che suggerisce una (possibile) interessante direzione di lettura: e se il risultato inferiore alle attese di Cinque Stelle fosse anche leggibile come “limite dell’integralismo web”? In termini più semplici come campanello d’allarme su dove si può, e non si può, arrivare mettendo insieme della gente senza metterla realmente insieme, ovvero utilizzando luoghi virtuali come quelli offerti da social media e quant’altro ? La Storia si è spesso incaricata di smentire molte profezie e un numero ancora maggiore di battaglie di retroguardia. Magari si incaricherà di smentire pure questa chiave di lettura. Può darsi che da qui a dieci anni voteremo solo digitalmente, come non mancano di suggerire oggi i giovani scrutatori spazientiti ai ponderati presidenti di seggio ogni volta che ci si perde in verbali e neolitiche matite copiative (le producono solo per le elezioni). Eppure nell’esegesi di Cinque Stelle che si imbriglia lì, nella ragnatela del 25 per cento, possiamo metterci pure questo. Qualche anno fa Massimo D’Alema, cervello finissimo, non altrettanto carismatico o non sempre tale, ebbe a fare un’osservazione acuta sui temi del rinnovamento e della rottamazione che già rombavano all’orizzonte. Anche dentro il suo partito, anzi prima di tutto nel suo. D’Alema osservò che “la classe politica di una Nazione deve rispecchiare la composizione anagrafica media di quella nazione “. E siccome in Italia uno su due ha più di 40-45 anni – bene o male che sia, è così - ne vengono varie conseguenze fra cui quella che un mare di votanti li devi convincere ancora ancora oggi vedendo il “faccione” elettorale sui brutti lamieroni di latta, leggendo il giornale, col gazebo al mercato e l’assemblea pubblica. Anche il Pd e il suo giovane leader ci vanno giù pesante con tweet & C., ma le Primarie il Pd le ha sempre fatte mettendo i tavoli dentro le sezioni, i municipi, persino dentro i bar. Andando in tv, pure troppo, che è ancora il media privilegiato dagli italiani. Quando si parla di rete e virtualità si spalancano poi prospettive immani, più da filosofia che da giornale a dire il vero, e in effetti l’interrogativo su dove arriveremo consegnandoci alla “second life” di internet alimenta esattamente un dibattito filosofico - di quelli da mantenere il sangue freddo - fra “umani” e “postumani”. Mettersi in digressioni simili non è caso e luogo, ma si possono comunque passare in rapida carrellata alcuni aspetti della diatriba aperta su positività e negatività dell’informatica no limits. Tralasciando le ovvie problematiche di quanto lavoro genera il cyberspazio (una bella gatta da pelare), si possono toccare in rapida rassegna alcuni interrogativi. La rete spesso è uno “specchio” e non un confronto fra diversi: questo è uno ad esempio. Alla fine, anche su Facebook o cose simili, ci si finisce per darsi più ragione che torto; chi ti dà torto alla fine non lo segui più a meno che tu non sia un litigioso cronico – cosa sconsigliabile. Ma in un parlamento o anche in un consiglio comunale ci si dà più torto che ragione, spesso; ma proprio da qui scaturisce la sintesi benefica. C’è poi l’aspetto, assolutamente ovvio, dell’impermanenza dei contenuti sul web (inteso soprattutto come blog/social, non “internet tradizionale”) e della loro riduzione a pochi e schematici contenuti. “Quicquid recipitur ad modum recipientis recipitur”, affermavano i filosofi scolastici medievali più o meno mille anni fa, senza conoscere internet. Tutto ciò che si recepisce si recepisce al modo del recipiente; sembra banale, ma significa che scrivere una legge o un’enciclica su un social media è un bel problema. Anche perchè, e qui arriviamo ad un’altra bella questione: chi decide quando la legge è chiusa?

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