A pagare sarà l’Italia degli onesti

Con il classico taglio di chi sa ciò che dice e con il linguaggio scarno del tecnico, il presidente Monti ha risottolineato la drammatica situazione italiana, riconducibile al colossale debito accumulato in mezzo secolo di colpevoli spropositi, ponendo, o forse è meglio dire imponendo, i necessari rimedi, onde evitare una catastrofe del tutto sovrapponibile a quella ateniese. Ora tutti, partiti e sindacati, hanno scatenato il pleonastico, gioco delle parti, presentando proteste e proposte alternative, organizzando tavoli di discussione cui tutti partecipano nel tentativo di far passare come onorevole una resa scontata ed incondizionata. Non abbiamo né la vocazione né la voglia di seguirli, ben consapevoli dell’inutilità di quanto possa esser detto allorché “i buoi sono ormai fuori e lontani dalla stalla”. Ancora una volta vogliamo però ripercorrere il capitolo delle cause remote che tale disastro hanno provocato, chiedendo collaborazione al...“Gattopardo”, il romanzo storico più amato del Novecento italiano. Ai primi lumi di una livida alba novembrina, un ometto di fenotipo settentrionale, si congeda da don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, alla stazione postale di Donnafugata, paesino di poche centinaia di anime nei pressi di Ragusa. Il 1860 volge al termine; Garibaldi ha da poco consegnato ai testi di storia la sua memorabile impresa; in Sicilia si è appena svolto il plebiscito per l’annessione al regno sabaudo. Il cavaliere Aimone Chevalley, piccolo proprietario di un vigneto nell’alto Monferrato, emissario regio in trasferta, alla ricerca di adesioni per il costituendo Senato torinese, ha incassato, la sera prima, l’inatteso rifiuto dal suo illustre anfitrione, emerito rappresentante della nobiltà palermitana. Allungando l’occhio in direzione di quel “paesaggio irredimibile”, mentre si accinge a salire sulla traballante vettura, rimugina dentro di se le strane argomentazioni addotte dal nobile isolano sull’atavico, incurabile male che affligge quelle genti e, mentalmente, formula un fiducioso, augurale pensiero: “Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna, cambierà tutto”. Mai previsione, pur sostenuta dalle migliori intenzioni, si è rivelata così farneticante. Dopo centocinquant’anni, essa mostra, con stridente crudezza, tutto il suo completo, desolante fallimento.In un secolo e mezzo questo Paese è passato attraverso le tragedie di due guerre mondiali; ha sperimentato un ventennio di illusioni nazionali e coloniali; ha mandato in pensione un antico casato regnante; ha scelto il modello governativo repubblicano; ha creato quasi dal nulla un tessuto produttivo di prima grandezza; ha conquistato eccelse posizioni del firmamento culturale, ma non è riuscito a tradurre in pratica, nemmeno in minima parte, l’ auspicio del pittoresco personaggio evocato, dalla fertile fantasia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.Non v’è riuscito l’autoritarismo militare di Vittorio Emanuele II; non ce l’hanno fatta, De Pretis e Giolitti, né miglior sorte ha avuto il passaggio dittatoriale di Mussolini; si sono rivelati, pur in favorevole congiuntura, infruttuosi i tentativi di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti; non ha avuto successo la lungimiranza di Enrico Berlinguer e la tardiva concretezza di Mino Martinazzoli.L’ombra borbonica, un tempo stagnante sulla Zisa e sul Maschio Angioino, resa più tetra dalla gramigna mafiosa e camorrista germinatavi accanto, si è pigramente allungata su tutto lo Stivale, paradossalmente ribaltando l’ottimistico vaticinio di Chevallier. La brusca saggezza piemontese, il senso pratico, sbrigativo ed operoso, dei lombardi, la paziente laboriosità veneta hanno, infatti, ammainato bandiera, lasciando campo alla protervia dei sudditi postumi di Franceschiello, perennemente alla ricerca di privilegi, di scorciatoie, di corsie preferenziali, di favori, di compiacenti amicizie, di clientele, di facili ed illeciti guadagni, in altezzoso spregio alle regole e alla legalità.Di tale “defaillance”, tuttavia, quel che appare più grave e che deprime le residue speranze, non è tanto l’incapacità di opporre resistenza, quanto l’evidente accezione del contagio e la colpevole propensione a clonare nel proprio seno quei caratteri, rivelatisi, sciaguratamente, dominanti.E c’è un ulteriore aspetto peggiorativo, che ha deluso, mortificato ed affossato quel progetto di modernità mai decollato. Il “borbonesimo”(ci venga concesso il termine), criticabile e retrivo finché si vuole, aveva manifestato timidi fermenti nel tentativo di andare incontro all’incombente, tumultuoso futuro.Già Re Ferdinando aveva promosso la costruzione della prima ferrovia su territorio italiano, la Napoli - Portici, ed aveva fatto sorgere una grande officina per la produzione di locomotive a vapore nel Reale Opificio di Pietrarsa. Lo stesso Francesco II di Borbone, in extremis, probabilmente sotto l’influenza della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, sorella dell’imperatrice d’Austria, ed, in momenti successivi, Francesco Crispi, Luigi Sturzo ed Enrico de Nicola si erano impegnati in programmi correttivi al decrepito costrutto legislativo ed amministrativo siculo/campano. L’Italia monarchica prima ed, in seguito, l’Italia repubblicana, hanno ignorato quegli embrioni riformisti, adottando solo e tutto il peggio di quell’ arcaico assetto. E’ obbligatoria, perciò, la conclusione, intrisa di rassegnata supponenza e che travalica, ahimè, i confini dell’isola di Polifemo, recitata dal Principe, mentre, accompagnando con lo sguardo la diligenza di posta già lontana, si avvia, con don Ciccio Tumeo, alla battuta di caccia mattutina: “Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore”.Per tale nodo, inesorabilmente incastrato nelle maglie ormai strette del setaccio, l’Italia degli onesti (comunque concorrenti alla colpa) paga e pagherà un altissimo prezzo, di cui, forse, non avverte ancora piena percezione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA