A Lodi serve un nuovo ospedale per ripartire dopo la pandemia

L’emergenza Covid ha ingigantito i problemi del Maggiore: spazi stretti, strutture vecchie, difficoltà di ampliamento. Cremona e Piacenza sono già avanti, noi siamo fermi

Da anni “accatastiamo” reparti su reparti. Spostiamo e scambiamo i servizi uno al posto dell’altro. Incastriamo le aree destinate all’assistenza sanitaria come in un gioco di scatole cinesi, ma il cemento non è gomma e l’ospedale di Lodi più di tanto, in quel frammento ristretto di città, non si può allargare.

Piacenza, al di là dal Po, in poco tempo, ha individuato lo spazio e dato il via ufficiale alla costruzione di un nuovo ospedale. E solo due mesi fa, l’assessore regionale al Welfare Letizia Moratti ha annunciato lo stanziamento di 300 milioni di euro per la costruzione di un nuovo presidio ospedaliero anche a Cremona, dove a svolgere il ruolo di direttore generale è l’ex manager di Lodi Giuseppe Rossi. Non si potrebbe fare la stessa cosa per il Lodigiano?

L’ospedale Maggiore da tempo soffre di problemi di spazio, tanto che l’idea di un nuovo ospedale, dove oggi sorge il Medical center, lungo la tangenziale, si era fatta avanti già negli anni ’80, ma poi venne accantonata. Alle difficoltà logistiche all’interno della struttura ospedaliera del capoluogo si sommano quelle esterne, che riguardano la viabilità del quartiere e il parcheggio, lontano e sempre occupato.

A febbraio «il Cittadino» pubblicò il “piano dei fondi straordinari per l’edilizia ospedaliera con i possibili interventi da realizzare, finanziati e richiesti per 102milioni e 856mila 600 euro” discusso dall’Asst in collegio di direzione. L’amministrazione dell’ospedale definì poi quel documento una mera bozza, rivisitata e modificata in larga misura: i contenuti sono stati cambiati, i progetti annullati e trasformati, ma le risorse no, quelle c’erano e ci sono, come ci sono i 248 miliardi del Recovery plan, il piano nazionale di ripresa e resilienza del governo Draghi. Risorse che potrebbero essere utili per rilanciare la sanità locale.

Da tempo la comunità civile lodigiana chiede che ci sia una strategia di fondo nelle scelte relative alla salute e che quella strategia sia condivisa, perché di bene di tutti si tratta, ma questo non avviene. Non c’è un pensiero comune, un ragionamento convergente, che sia finalizzato esclusivamente al bene collettivo.

Il tema centrale è quello del diritto alla cura che non sempre è garantito: i tempi d’attesa sono preoccupanti (per fare solo un esempio, per un’ecocardiografia colordoppler a riposo, già nel 2018, servivano 180 giorni, saliti a causa del Covid a oltre un anno) e la popolazione, in numero crescente anziana è costretta a fuggire altrove, non senza disagi, soprattutto in un tempo dominato dalla precarietà.

Lo sa bene il privato che, non a caso, ha fatto del Lodigiano la sua terra d’espansione: dopo la Maugeri, che ha messo radici, di recente, in via San Giacomo, di fianco a Lodi Salute, ha aperto anche, con una vasta offerta di prestazioni, alla Bennet di Pieve, il gruppo Policlinico San Donato.

Il privato cresce e il pubblico no, ma non è esattamente quello che recita la Costituzione e neanche quello che ha chiesto il Papa: “Non c’è giustizia senza equità”, ha detto. Un assioma, il suo, che non vale esclusivamente per la differenza tra il mondo Occidentale e il Terzo mondo, ma anche per le ingiustizie nel nostro emisfero. Nella sua enciclica, non a caso intitolata “Fratelli tutti”, la parola “giustizia sociale” è citata ben 40 volte. E l’ha sottolineato anche il vescovo di Lodi Maurizio Malvestiti durante i colloqui di San Bassiano in Cattedrale, lo scorso febbraio, che la salute di tutti deve essere tutelata.

Può essere tutelata se il Pronto soccorso di Lodi che registra 100mila accessi all’anno in un territorio con 230mila abitanti non sa più dove allargarsi e se è destinato ad essere la risposta anche a tutti i pazienti che non hanno un’urgenza? La sanità è gestita come una rete e non tutti i territori possono avere tutto, ma se Lodi è un hub per gli infarti perché non è più rientrata nella rete traumatologica dopo esserci uscita per la mancanza di alcuni criteri, tra i quali l’assenza di una radiologia interventistica?

Può la salute di tutti essere tutelata se mancano i medici di medicina generale? Può essere tutelata se siamo costretti a rivolgerci al privato, se la scelta di come investire le risorse pubbliche non è condivisa con le comunità e se la riforma della sanità lombarda sarà calata ancora una volta dall’alto sulle teste di tutti, rischiando di essere per l’ennesima volta un cambio di forma, ma non di sostanza radicale? Può essere tutelata se la Regione Lombardia, a differenza dell’Emilia Romagna, non ha emanato una direttiva per riaprire, almeno in parte, i reparti, chiusi dalla pandemia, alle visite dei famigliari?

I sindaci del Lodigiano facciano sentire la loro voce e la facciano sentire pure i consiglieri regionali, i parlamentari e i ministri.

La pandemia ci ha insegnato che il nostro sistema sanitario è debole e che la scala dei valori va ribaltata. Va ribaltata in nome dell’etica e del bene comune. Non c’è tempo da perdere.

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