Viaggio a Harlem senza il biglietto per il ritorno

Dennis Malone ha dettato legge nelle strade di New York con la Manhattan North Special Force, un team della polizia chiamato, nel gergo di Harlem, Da Force. Per vent’anni «la sua città, la sua zolla, il suo cuore» hanno combaciato, poi qualcosa si è rotto, e si è ritrovato a guidare una folla di fantasmi verso un destino segnato. Don Winslow sa di mettere mano a una materia instabile e scivolosa e non concede distrazioni. Il ritmo tambureggiante, noncurante di qualche screpolatura, è un tuffo senza rete. Seguire il sergente Malone non prevede biglietto di ritorno. Non c’è alcun elemento posticcio, suspense o colpo di scena. È un naufragio metropolitano, ogni capitolo sempre più a fondo. Nella costituzione stessa di Da Force, che deve occuparsi dell’intersezione tra spaccio e violenza, c’è il peccato originale che vede in Denny Malone il protagonista indiscusso: la sua squadra rispecchia la composizione cosmopolita della città con gli elementi etnici originari (irlandesi, ebrei, italiani e afroamericani), mentre quella di Rafael Torres è costituita da latinoamericani. Anche se, come dice uno dei “fratelli” di Malone, Monty Montague, «la maggior parte dei poliziotti non distinguono tanto tra bianchi e neri, ma tra poliziotti e tutti gli altri», il confronto, e poi scontro, tutto intestino all’unità di polizia, è il primo sintomo dell’ambivalenza che regna sovrana nel romanzo. Come è nella natura stessa della Corruzione, dove vittima e colpevole sono intercambiabili, tutto è doppio, e non solo sulla scena del crimine. Denny Malone e la sua squadra hanno famiglie e figli, ma anche una vita notturna assai movimentata, con vizi e lussi, rituali e segreti. Da qualche parte, dovranno pure attingere, per permetterseli. Come si può intuire dal titolo, Da Force si concede molto (molto) di più, le leggi sono sigle che viaggiano insignificanti nell’etere, la dichiarazione dell’obiettivo minimo e indispensabile è fin troppo esplicita nella sua ambiguità: «Abbiamo un solo compito: tenere la posizione. Il resto sono dettagli». La trincea è Harlem: nonostante i recenti aggiornamenti, l’architettura cresciuta in modo disordinato, gli isolati «fatti di ricordi», le speculazioni edilizie e le tensioni razziali sono rimasti elementi esplosivi insieme con «gli ingredienti di sempre: povertà, disoccupazione, spaccio e gang». A maggior ragione, per Da Force, «non importa quello che fai o come lo fai (finché non finisce sui giornali), basta che tieni gli animali dentro le gabbie». Finché un procuratore con una carriera spianata davanti non incastra Malone, scoperchiando un vaso di Pandora dagli esiti imprevedibili. La struttura, la geografia di Harlem, la natura stessa della storia fanno di Corruzione il nuovo capitolo della tragedia urbana americana visto che, come ammettono gli stessi protagonisti, «siamo tutti corrotti. Ma ciascuno a modo suo». La corruzione, endemica e mutevole, assume forme diverse più si risale la scala gerarchica, dal capo della polizia al sindaco fino a Washington, dato che «il sistema americano prevede che verità e giustizia si salutino se si incrociano in corridoio, magari si scambino gli auguri di Natale, ma il loro rapporto finisce lì». La metafora è calzante, ma le distorsioni sono molto più complesse e senza accorgercene ci ritroviamo a chiederci i motivi dell’empatia con Denny Malone che oltre a essere corrotto fino al midollo, è pure una spia. Forse perché «i poliziotti vedono prima le vittime e poi i colpevoli», e almeno questo gli va riconosciuto, ma in fondo è soprattutto perché è soltanto l’ultima preda di una feroce catena alimentare, e all’alba di ogni giorno è costretto a dirsi che «a ogni modo, racconti a te stesso quello che serve per fare ciò che devi fare. E qualche volta persino ci credi». Un romanzo incalzante, molto crudo nella sua aderenza alla realtà.

Don WinslowCorruzione (traduzione di Alfredo Colitto)Einaudi, Torino 2017, pp. 552, 21 euro

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