Il cuore pulsante nell’“inverno” di Guadalupe

So di non essere lei, con un piede nel groviglio di lettere, pensieri, strade, finestre e stanze, soprattutto stanze. Sai anche che la narrativa a due voci è una piccola trappola – per fortuna! - lui e lei che raccontano in prima persona a capitoli alternati, prima di conoscersi e innamorarsi. Qualche informazione in più, per ambientarci: «Esseri imperfetti che vivono in un mondo imperfetto, siamo condannati a trovare soltanto briciole di felicità. Che alternative abbiamo? Forse accettare i nostri limiti, le nostre contraddizioni, le nostre numerose necessità, cercare di essere più forti del peso che ha la colpa». Ecco tutti gli elementi per dire che siamo in un romanzo di Guadalupe Nettel, Quando finisce l’inverno .

Con tre storie pubblicate e diverse raccolte di racconti, la scrittrice messicana si è imposta come una delle più importanti autrici in lingua spagnola. In Italia arriva con un filo di ritardo, ma con un carico di premi, temi e personaggi sufficiente per imporsi come voce femminile centrale. Claudio e Cecilia sono i protagonisti della sua storia ambientata tra Cuba, Messico, Parigi e New York... Non lasciamoci ingannare: in Quando finisce l’inverno finisce entrano tante cose rubate a se stessa (e anche un pochino a noi lettori). Due persone distanti, che forse s’innamoreranno e forse no, contese tra infelicità nostalgica e piccole esplosioni di gioia.

La prima chiave per bucare questo inverno è l’estraneità alle cose, l’adesione all’imperfezione. Attenzione all’originalità della Nettel: c’è la promessa di un grande amore che potrebbe non essere tale, l’elaborazione del lutto che precede il lutto, un’amicizia

casuale che riassume una vita intera e un cimitero famoso (il Père-Lachaise) che è scialuppa di felicità. Cecilia stessa, la nostra protagonista, non si spiega il senso di pensieri, incontri e passioni vissuti controvoglia. Come ne Il corpo in cui sono nata - l’unico altro romanzo pubblicato in Italia, sempre da Einaudi – la scrittrice ha un approccio diretto al racconto, poco empatico, quasi freddo nella trasmissione di un’intimità dalla cornice innegabilmente autobiografica. L’esplosione di un realismo più metaforico che affettivo, se c’interessa marcare una differenza con l’essenzialità descrittiva di Annie Hernaux. Prendiamo l’esteso (ed esemplare) capitolo sull’ospedale intitolato Pink moon: Nettel insegue il simbolo esistenziale dietro la realtà cruda. Lo frantuma, magari. È qui che richiede la presenza sempre attiva del lettore, che non è testimone imparziale (ancora la Hernaux). Ecco la caratteristica più “letteraria” della sua scrittura.

Andrebbe ora toccata, magari solo sfiorata, la dimensione romantica del libro. Non semplice, dato che abbiamo due innamorati separati dall’oceano, due innamorati avvicinati da un silenzio in corridoio e due innamorati conclamati che si comportano come se non lo fossero. È la trappola del finto cliché, che richiede un passo indietro. Guardiamola da lontano, dalle parole di un’altra scrittrice, Rivka Galchen – Innovazioni americane, magnifico - mentre strappa una confessione alla bimba che scopre la prima cotta: «Sono pervasa, ed è la pressione di un albero di betulla contro le mie pareti interne, con le foglie che mi arrivano fino in gola, dalla sensazione orribile di volere un’altra vita. Mi è già capitato di pensare che certi miei compagni di classe hanno una bella faccia, ma non mi era mai venuta voglia di appoggiare la testa sulla vena del polso di un uomo (ogni tanto ci ripenso ancora adesso a quella vena)». Rapido rientro in Quando finisce l’inverno: esseri umani pervasi, soffocati internamente, messi in vite sbagliate che si rivelano giuste, incuranti dell’incontro con la “bella faccia”, e determinati, anche ossessivi. Parole che descrivono un amore? Ci parla di più la vena di un braccio. Insieme a Guadalupe, non facciamo altro che appoggiare la testa per sentire il pulsare del sangue che scorre.

Guadalupe Nettel - Quando finisce l’inverno - Einaudi Editore, Torino 2016, pp. 248, 19.50 euro

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