La corte che guarda le montagne

Arrivo lì dove, per anni, ho desiderato di essere ospitato senza mai riuscire ad aprire un varco: a Comazzo. Terra di confine, tra Milano e Lodi, che fu scoperta nell’anno di grazia 850 da tale Antelmo, che acquistò da Erimperto case e appezzamenti di terra, realizzandovi un primordiale insediamento rurale.

Ma era un’altra la storia di Comazzo che mi aveva incuriosito, avvenuta nell’anno 1509, quando nella guerra tra Francia e Venezia, accadde un curioso episodio: una lite tra un albanese ed un genovese, che per meglio combattere chiesero ad un generale francese un prato dove, a nude mani, proseguire la sfida. Fu una lotta cruenta, dove alla fine prevalse l’albanese: il perdente, come un trofeo, fu concesso al comandante francese; questi accettò il dono, riconoscendo all’albanese 50 scudi d’oro; poi li obbligò alla pace, tenendoli entrambi nel proprio esercito. Così Comazzo, nel mio immaginario, è per me il luogo della pace e dell’unione tra le genti.

Un paesaggio intattoQui il paesaggio è inalterato; merito anche di un cospicuo finanziamento concesso per opere compensative seguite alla realizzazione della Tangenziale Esterna Milano: è stata ristrutturata la chiesetta di San Biagio, riconducibile alla scuola di Donato Bramante, e valorizzata una pista ciclabile. Ma un’eccellente salvaguardia dell’ambiente l’ha realizzata il Parco Adda Sud, con la donazione di alberi autoctoni. Venticinque anni addietro, ad esempio, in collaborazione con gli enti locali, veniva donato un albero per ciascun studente: lo scopo era quello che il ragazzo si avvicinasse alla natura, curando il proprio arbusto. Così la vegetazione è cresciuta: fitta e rigogliosa. E Comazzo appare come una finestra aperta su un magnifico panorama: nelle giornate nitide, dal punto più esterno all’abitato è possibile ammirare il Resegone, poi la Grigna, e più ad ovest, sulla sinistra, il Monte Rosa.

Viene nostalgia della montagna. E anche del burro, dice con una battuta Carlo Valsecchi, agricoltore della cascina Rovere. Sono suo ospite in una mattinata che non indulge ai colori e mantiene una luce piatta e diafana, ma è il senso dell’ospitalità ad illuminare rapporti umani e racconti, sul tavolo alcune fette di crostata, e su un vassoio le tazze di caffè ed un bricco di latte. Ho promesso che avrei sottratto, ai suoi impegni in stalla, il minor tempo possibile. Ma quel che mi piace di Valsecchi è che, durante il nostro incontro, non ha mai posato lo sguardo al suo orologio, e data la qualità della crostata della moglie Maria Grazia, avessi avuto maggiore confidenza, mi sarei autoinvitato anche per il pranzo: intuisco che sarei stato accettato senza stupore alcuno. Le amicizie, certe volte, nascono così.

Il burro di nonno LuigiCarlo Valsecchi ha accennato al burro perchè i suoi antenati cagliavano il latte. Il nonno si chiamava Luigi Valsecchi, nativo della metà dell’Ottocento, e originario di Morterone, nel Lecchese, anzi di una sua piccola frazione, Ulino.

Luigi Valsecchi seguiva la tradizione dei bergamini: scendeva a valle nel periodo invernale (da San Martino a San Giorgio), e li seguiva nelle malghe durante le estati, lavorando il latte da loro consegnatogli, per poi rivenderlo, nelle varie qualità di formaggi molli, in particolare crescenza, e burro. Quando i bergamini, sul finire dell’800 si stabilirono nelle stalle di pianura, anch’egli si fermò a Corneliano Bertario. Agli inizi del Novecento, nel settore caseario avvenivano profonde trasformazioni: proprio dal Lecchese, arrivavano in pianura e realizzavano le proprie industrie, a Melzo e dintorni, Egidio Galbani, Romeo Invernizzi, Mattia Locatelli, ed Eugenio Cademartori.

Questi imprenditori fecero la storia dell’industria casearia: i loro marchi rappresentavano, una volta, l’eccellenza della produzione di latte e formaggi. Ma hanno avuto uno strano destino: oggi, come la stessa Parmalat, appartengono tutti ad un gruppo di caratura mondiale, quello della Lactalis, casa francese. C’è di che riflettere: quasi il nove per cento di latte prodotto in Italia è acquistato da una ditta straniera d’Oltralpe, che ha assunto così una forza contrattuale impressionante, tanto che quest’anno ha sottoposto un contratto ai suoi conferenti in cui il prezzo pattuito prende a riferimento quello rilevato sul mercato tedesco. Proprio paradossale: una ditta francese acquista il latte in Italia, il cui prezzo viene stabilito in Germania!

Nuove stradeMa ai tempi d’oro furono proprio Locatelli, Invernizzi, Galbani e Cademartori a rivoluzionare quelle che sembravano ataviche regole del mercato del latte: e invece che limitarsi a commercializzarlo, decisero di lavorarlo direttamente. E dettarono nuove prassi. Mentre Valsecchi acquistava il latte dagli allevatori consegnando loro, come caparra, l’importo equivalente alla produzione di 15 giorni, e il saldo lo regolava a fine mese, i nuovi industriali anticipavano sull’unghia ampie caparre, che coprivano sino a tre mensilità delle produzioni complessive. Una competizione insostenibile. Rispetto alla quale Luigi Valsecchi si limitò a prendere atto, interrompendo il proprio impegno. La famiglia Valsecchi non ne fece un dramma: gli otto figli, a cui papà Luigi aveva trasmesso spirito sereno e dono del fatalismo, si convertirono in altre attività, pur non rimanendo mai troppo distanti dall’agricoltura. Chi divenne autotrasportatore del latte, chi prese in gestione l’albergo Maggiore di Melzo, punto di riferimento per gli agricoltori della zona, chi commerciante di riso ed altri prodotti alimentari.

Erminio Valsecchi, che era nato nel 1914, svolse l’attività di insaccatore di salumi. Venticinquenne fu arruolato e poi mandato in guerra: partecipò al fronte francese ed a quello russo. Tra il periodo di ferma ed il conflitto bellico rimase via per otto anni. Di questa fase della sua vita per lungo tempo non fece cenno. Evitava. E, qualche volta, rabbrividiva. Si coglieva nei particolari: i film di guerra lo irritavano, e quando Bush attaccò l’Afghanistan e si parlò di guerra giusta, il signor Erminio ammoniva che «solo chi non ha visto la guerra, può definire giusto un conflitto».

Alla figlia, Nadia, volle dare questo nome in ricordo di una donna russa che l’aveva salvato, ospitandolo e nascondendolo nella propria isba. Negli ultimi anni, modificò il proprio atteggiamento: spesso parlava della guerra, delle tante atrocità che aveva visto.

Ancora in stallaErminio aveva sposato Luigia Ceriani, originaria di Corneliano Bertario. La coppia ebbe due figli: appunto Nadia, e Carlo, testimone di questa storia.

Nel 1953 Erminio Valsecchi venne a Comazzo, subentrando al signor Spinelli nell’affittanza di un fondo di proprietà della Galbani Nel 1956 spostò il proprio centro aziendale da una corte di fianco al Comune ad una al centro del paese. I Valsecchi intrapresero la propria attività di allevatori con 15 manzette. Erminio Valsecchi fu un agricoltore capace ed attento ai rapporti umani. Nella sua azienda un collaboratore si è fermato per 42 anni: Franco Brunetti. Ma esempi di fedeltà e senso di appartenenza furono anche in altri: Morstabilini, Bonomini, Olivieri, Manzoni, Albino Bassi, Battista Vanelli, Fasoli, Bertin.

La stalla crebbe e l’azienda si ingrandì; nel 2010 è stata costruita una nuova struttura. Oggi il latte, ricavato dai 150 dei 300 capi totali, viene conferito al Consorzio Produttori latte di Milano.

Carlo Valsecchi ha sposato Maria Grazia Pezzi di Comazzo; la coppia ha avuto quattro figli: Paola, che sta conseguendo la laurea in Giurisprudenza; Claudio, laureato in Scienze e tecnologie delle produzioni animali; Mauro, perito agrario, che lavora nell’azienda di famiglia; Giulio, al quarto anno di scuola superiore. Tutti collaborano, comunque, nelle attività agricole. Vi sono anche due collaboratori: Salvatore Gioitta, presente dal 1986, e Alessandro Invernizzi.

Costi e ricaviCarlo Valsecchi, che da giovane ha amato gli studi ed apprezza l’infallibile logica dei numeri, fotografa la realtà agricola attuale con precisione: negli anni Ottanta, fatto 100 il prodotto lordo vendibile di un’azienda zootecnica, i costi della sola alimentazione del bestiame incidevano per il 30%; nel 2000 salivano al 40%; oggi incidono per il 60%. Ai costi alimentari vanno aggiunti quelli della manodopera sia essa salariale o familiare, che incidono, a seconda dell’azienda, da un 15 ad un 20%. Con il rimanente 20% bisogna far fronte ai costi dei servizi, a quelli energetici, agli ammortamenti e agli affitti o alle remunerazioni del capitale fondiario. I margini di guadagno si sono dunque ristretti, e di molto. Una statistica offerta dal Sata dell’Associazione Allevatori ha rilevato che nel 2013 su 100 aziende agricole soltanto il cinquanta per cento sono in attivo. Mentre una proiezione fatta per il 2015 , con gli attuali prezzi di mercato, porta la valutazione al 30 per cento. Verranno sicuramente tempi migliori, e allora si intuirà la grande lezioni di vita che insegna come il futuro abbia le sue radici nelle tradizioni e nei valori del passato.

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