Felice Vanelli, uno spirito nell’arte

Un anno fa, alla fine luglio, prendeva commiato Felice Vanelli. Avrebbe meritato d’essere ricordato con una retrospettiva, ma la mostra che Tino Gipponi aveva in programma di organizzare è all’improvviso “saltata” o “slittata”. Non si conoscono i motivi, ma non si fatica a immaginarli. Dall’aldilà sicuramente Vanelli non se ne sarà amareggiato. Già in vita era uno che non amava troppo rumore intorno a sé. Amava lavorare in solitudine, era un silenzioso.

Classe 1936, fu ceramista, scultore, pittore, affreschista, decoratore, all’occasione anche grafico: unificava in chiave operativa e fattuale molte specializzazioni. Apparteneva alla generazione del secondo dopoguerra: quella dei Bosoni, Vailetti (Benito), Volpi, Marzagalli, Maiorca, Maffi, Vertibile; anteriore della stagione dei Cotugno, Poletti, Maiocchi, Mai, Bracchi, Bertoletti, Vailati, Mocchi, Podini, Weremeenco, Quadraroli, Tresoldi, Belò, Vailati, Stromillo, Manca, Frosio, Bruttomesso e via discorrendo.; frontale a quella dei Franchi, Staccioli, Mauri, Chiarenza, Santus, Corsini e Ottobelli. Le sue scelte sono stilisticamente ed esteticamente spostate e dagli uni e dagli altri. Anche dai predecessori Monico, Vigorelli, Bonelli, Vecchietti, Bassi, Roncoroni, Malaspina, Vailetti (Santino), Maiocchi, Migliorini, Vigorelli e Antonioli, che pure ha sempre frequentato.

I suoi lavori arredano abitazioni, uffici, luoghi pubblici, piazze, giardini, soprattutto chiese. Non tutti sono di uguale livello, ma questo nella produzione di un artista prolifico è scontato. Tutti o quasi tutti però sono sostenuti da significati di sostanza morale. A un iniziale culto “michelangiolesco” ha fatto seguire, in un coerente sviluppo di linguaggio, indirizzi figurativi più aggiornati. La mano, la mente e il sentimento dell’artigiano-artista hanno tratto esperienza dalla conoscenza tecnica e culturale. Vanelli è stato figurativo dal primo istante.

La scultura, l’affresco, sono arti arrivate dopo la pittura, e dopo ancora è arrivata la ceramica, quando l’enfasi giovanile aveva ormai lasciato posto all’efficacia, e la mano – maestra - aveva imparato a restringere sull’indispensabile.

Era una artista di gran mestiere e tecnica. Amava l’arte come attività manuale e come valore. Diceva: «L’arte, come l’amore, è una malattia dello spirito». Dell’amicizia, dopo certi fatti che lo avevano professionalmente danneggiato, s’era fatto un’idea sua propria: «Fuggire gli amici, gli adulatori: appena volti le spalle ti fregano mercanteggiando vilmente…».

Da tempo memorabile maneggiava motivi rischiosi, il religioso e il liturgico. Le Sacre scritture hanno animato i lavori della sua maturità. Nella pittura su muro ha dato sfogo alla sua gran passione disegnativa. In scultura ha manifestato i segreti del rilievo, dell’alto, del mezzorilievo, del basso praticati con attenzione al grado di spessore di una figura rispetto alla lastra del fondo. Qualità tecniche che poi ritroveremo nella pratica ceramistica, dove, in collaborazione con Angelo Pisati fece entrare in gioco elementi diversi come la policromia, l’ingobbo, la lucentezza, le tecniche e i tempi di cottura: una qualità più specifica che riporta il lavoro manuale alla grande dignità artigiana descritta da Diderot nella sua Enciclopedia.

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