Bolidi, muscoli, sportellate e (forse) voglia di casa

“Too big to fail“. L’etichetta in verità non portò bene ai giganti che poi realmente crollarono nella crisi finanziaria del 2008, ma sembra tenere ancora per Dom Toretto e “famiglia”, ben saldi al volante nonostante le 8 puntate sulle spalle. Una longevità da serie televisiva di quelle importanti che ben pochi si sono potuti permettere e che invece la saga nata nel 2001 riesce a sbandierare con cifre record: dalle prime corse clandestine con un “piccolo” budget si è arrivati alle cifre di oggi, quelle di un blockbuster per quanto riguarda l’investimento e (c’è da scommetterci, ancora) gli incassi. Insomma il franchise tutto bolidi-fisici scolpiti-fratellanza-adrenalina si ripresenta in sala con la consueta sfrontatezza, anche se ha appena dovuto celebrare il funerale (cinematografico e purtroppo reale) di uno dei suoi protagonisti. Fast & Furious 8 poteva essere quindi il più complicato in assoluto (e in effetti, poi lo vedremo, lo è) e gli autori non avevano la strada spianata per ripartire.

Lo fanno cercando di rispettare le regole base, quelle che hanno fatto la fortuna della saga, confermando in blocco la squadra e inserendo un personaggio forte per alimentare la dinamica di base su cui tutto il film è costruito. Quella del duello, che sia a bordo di una fuoriserie o con un’arma in mano, in un circuito, un’arena o in una strada: con la “famiglia” tutta unita per proteggere i valori e le leggi primordiali che la regolano. Ma con un’eccezione, il tradimento che si insinua, la novità (che non va svelata oltre) che serve a riaccendere il motore e rinfocolare l’interesse.

Don sono andati a ripescarlo a L’Avana dove si stava godendo la luna di miele (ed è la scusa per fare a sportellate sul Malecón), da lì in poi si corre e si vola tra un paese e l’altro fino ai ghiacci delle basi militari sovietiche. Nelle mani di F. Gary Gray (The italian Job e Straight Outta Compton) che muove musica, corpi e anime cercando qua e là qualche elemento di novità.

Insomma la carrozzeria non è cambiata, ma quello che c’è dentro quanto è cambiato? … se è cambiato... E come è cambiato? L’ottavo capitolo della serie è più Fast e più Furious che mai ma è anche meno, molto meno, pathos, meno emozione, meno (inevitabilmente) sorpresa. Nonostante il moltiplicarsi delle sgommate, delle sportellate, delle esplosioni che diventano nucleari e coinvolgono addirittura un sottomarino dirottato in una base in Siberia. Da serie tamarra sulle corse in auto siamo approdati alla spy story (tamarra, quello rimane...), una sorta di 007 carico di testosterone e senza un briciolo di ironia (e di autoironia soprattutto). Il problema non è il verosimile, non è mai stato quello. Le esplosioni, i ribaltamenti, il fuoco, quella è la ricetta base, ma qui manca altro, e forse questo altro si è allontanato in auto alla fine del film precedente. Il gesto del gladiatore nell’arena, anche quello sembra irrimediabilmente un po’ stanco e costruito identico a se stesso, giusto per non scontentare i fan. La famiglia, la lealtà, i muscoli di Vin Diesel e quelli di Dwayne Johnson, la forza di Michelle Rodriguez e delle donne del gruppo, a cui qui si aggiunge l’antagonista Charlize Theron per ravvivare il ménage: il codice resta quello e l’obiettivo è come sempre fare più fracasso possibile. Ma l’impressione è che anche gli autori, arrivati a questo punto, abbiano voglia “di casa” come i personaggi che forse sono finalmente arrivati al traguardo (anche se c’è già la data di uscita del capitolo 9 e poi anche del 10…).

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