La luce della speranza nel porto degli ultimi di Kaurismaki

Miracolo a Helsinki. Tra gli ultimi e gli irregolari di Aki Kaurismaki, regista che continua in direzione “ostinata e contraria” il viaggio per raccontare questo nostro tempo con uno stile personalissimo e unico, perennemente sospeso tra commedia e tragedia. Dopo Le Havre è arrivato il momento del ritorno a casa per l’autore finlandese che porta con sé i suoi personaggi che una dimora sembrano destinati a non averla mai (se non in quell’universo assoluto che è il cinema). Ecco allora L’altro volto della speranza che diventa il secondo capitolo di quella “trilogia dei migranti, o dei porti” nata quasi per caso - in corso d’opera e non studiata a tavolino - e che racconta la stringente attualità con quello sguardo disincantato e surreale che avvolge, ma non maschera, l’urgenza del dramma.

La Siria, Aleppo sotto le bombe che colpiscono i bambini, l’Iraq, l’accoglienza, i migranti che attraversano le frontiere come fantasmi che nessuno vuol vedere: difficile trovare un racconto più attuale di quello narrato in questo film. E poi la solidarietà tra gli ultimi, la mutua assistenza tra gli irregolari della terra, un popolo che sembra uscito da una canzone di De Andrè o da un romanzo di Izzo, un universo che Kaurismaki sa raccontare come pochi, con stile rigoroso, senza piagnistei, e una dignità quasi irraggiungibile. Il mondo in cui convivono Khaled, in fuga dalla Siria (“per sbaglio” e nascosto su una nave che trasporta carbone), e il suo anomalo salvatore, Waldemar anziano e anche lui in fuga per motivi completamente diversi, che scommette (e vince) al tavolo da gioco i soldi per aprire quel ristorante in cui ricominciare e che sembra un porto di mare. Appunto.

Non c’è retorica nel racconto di Kaurismaki, non ci sono lacrime ricattatrici e non c’è un briciolo di carità pelosa. Esiste invece una tensione morale altissima che passa attraverso il filtro “colorato” del cinema del regista finlandese (premiato all’ultimo festival di Berlino con l’Orso d’argento per la regia per questo film), quella vena poetica - diversa da Loach,quasi “zavattiniana” - che ha segnato tutta la sua opera e che qui sembra trovare uno dei suoi momenti migliori. Tra le pareti del ristorante di Waldemar, tra i muri che hanno lo stesso colore spento della divisa dell’aiuto cameriere, nei dialoghi minimi che nascondono una vena di umorismo sottile ma dirompente, che si interrompe l’istante prima di mostrare, quasi in silenzio, il dramma. O che continua invece fragorosa per mettere in ridicolo le storture, il razzismo, la violenza, le brutture del mondo.

Perché puoi ridere o piangere, ma non devi essere malinconico, quello mai. La malinconia non piace alla gente per strada che ti osserva, al poliziotto che poi ti controlla i documenti, al fanatico dalla testa rasata che fa parte di un autocostituitosi esercito di liberazione del Paese. Meglio piangere per il dolore, o meglio ancora ridere, o sorridere almeno come fa Khaled. Come fa Kaurismaki, che di tutti questi irregolari resta il re assoluto.

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