E se si dovesse tornare alle urne dopo le elezioni?

di Stefano De Martis

Il tema era già largamente presente nelle cronache politiche, da quando è apparso chiaro che, stante l’attuale configurazione del sistema dei partiti e con una legge elettorale fondamentalmente proporzionale, formare una maggioranza di governo nel prossimo Parlamento sarebbe stato un impegno a dir poco arduo.

La possibilità di un ritorno alle urne a pochi mesi di distanza dalle prossime elezioni, previste per l’inizio di marzo, è ormai un elemento esplicito del dibattito pubblico.

Il tema era già largamente presente nelle cronache politiche, da quando è apparso chiaro che, stante l’attuale configurazione del sistema dei partiti e con una legge elettorale fondamentalmente proporzionale, formare una maggioranza di governo nel prossimo Parlamento sarebbe stato un impegno a dir poco arduo. Nei giorni scorsi, comunque, è stato Silvio Berlusconi a porre sul tappeto questa ipotesi in modo palese.

Se dalle urne non uscissero vincitori, ha detto in sintesi il leader di Forza Italia, bisognerebbe tornare al voto dopo un congruo periodo di campagna elettorale e nel frattempo si potrebbe continuare con il governo Gentiloni.

Quali che siano le motivazioni che hanno spinto Berlusconi a questa sortita pubblica (il cui contenuto, peraltro, è condiviso anche da altri soggetti politici), il tema è reale e di estrema concretezza. Osservandolo dal punto di vista dei cittadini elettori, emergono due profili, uno rassicurante e uno, invece, che giustifica una razionale preoccupazione.

Il primo è che un governo in carica c’è sempre, anche con le Camere sciolte, anche quando – in presenza del nuovo Parlamento – l’attuale esecutivo si dovrà dimettere per un elementare principio di correttezza istituzionale. Non è un caso che l’accettazione delle dimissioni da parte del Presidente della Repubblica avvenga per prassi in modo contestuale alla nomina del nuovo capo del governo.

Non ci può essere soluzione di continuità. E del resto, al momento in cui rimette il mandato, il premier dimissionario viene invitato “a rimanere in carica”, appunto, per “il disbrigo degli affari correnti”. La portata di questi “affari correnti” è argomento su cui discutono da sempre i costituzionalisti, ma il governo c’è, è “in carica” e in tutta evidenza può provvedere sia a fronteggiare eventuali emergenze interne ed esterne, sia a ottemperare – per esempio – agli obblighi che derivano dall’appartenenza dell’Italia alla Ue.

Il secondo profilo, quello più problematico, non parte da un giudizio apocalittico sull’eventualità che possa essere necessario tornare alle urne. Non saremmo neanche il primo Paese europeo a trovarsi in questa situazione. Ma l’impossibilità di formare una maggioranza e il conseguente voto politico bis non possono essere un esito da valutare a cuor leggero. Il calendario elettorale è già fitto: nel 2018 si voterà anche in sette Regioni (tre probabilmente abbinate alle politiche di marzo), nel 2019 sono in programma le elezioni europee e l’anno successivo le restanti elezioni regionali.

Il problema principale, però, è che il Paese ha bisogno di avere al più presto un governo nella pienezza dei suoi poteri. Lo esigono le sfide economiche e sociali che abbiamo di fronte, per non parlare del processo riformatore in atto nell’Unione europea, che purtroppo in Italia trova scarsissima eco e che invece inciderà profondamente anche sul nostro futuro.

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