La quarta rivoluzione industriale

Lo sappiamo. La quarta rivoluzione industriale – quella degli sviluppi dell’intelligenza artificiale e dell’applicazione del digitale nel lavoro – richiede ai lavoratori di percorrere nuovi viaggi, non solamente geografici, ma anche culturali e di senso. Secondo uno studio del World Economic Forum, il 65% dei bambini che ora frequentano le scuole primarie farà un lavoro che oggi non esiste ancora. Certo, il lavoro inteso in senso stretto non deve crearlo lo Stato, ma le imprese. La classe politica è responsabile di rimuovere gli ostacoli per la creazione di lavoro come, ad esempio, l’eccessiva burocrazia per aprire un’attività, i lunghi tempi dei processi civili che scoraggiano gli investitori stranieri, l’enorme tassazione, il costo elevato dell’energia rispetto alla media europea, i problemi dell’accesso al credito o a forme alternative di finanziamento, l’accesso alla banda larga per tutte le imprese del Paese. Compito della politica è generare valore e non favorire l’assistenzialismo, lo ha ribadito anche il Papa. Al centro dell’impresa, poi, va riposto l’uomo inteso come risorsa e non come voce di costo. Per questo

il Paese ha bisogno di un sindacato riformato e riformatore che insieme ai pensionati prediliga i lavoratori e li protegga, di una classe di imprenditori illuminata e di una società civile matura e responsabile per contribuire a creare condizioni sociali e di impresa in favore di chi non ha lavoro, di chi ne ha uno precario, o di chi lavora illegalmente.

Insieme è possibile. Ma la scelta è culturale, è legata a una visione di bene comune e di equità che include rendite, stipendi e pensioni. Altrimenti l’emorragia di italiani che scappa all’estero – sono quasi 250.000 secondo “Il Sole 24ore” – non si arresterà.

Nel 1960 un manager guadagnava 4 volte più di un lavoratore; negli anni Settanta circa 40 volte di più; oggi si è arrivati a stipendi 150 volte maggiori del salario medio.

La buona uscita del manager della Tim, Flavio Cattaneo, che potrebbe aggirarsi intorno ai 25 milioni di euro, lascia attoniti.

Il lavoro, inoltre, deve essere ripensato insieme alla formazione. Secondo gli studi della Confindustria, sono circa 259.000 i posti di lavoro per profili professionali che le aziende non riescono a reperire. Mancano saldatori, cuochi, infermieri, esperti di marketing, falegnami, ingegneri, commercialisti, fabbri e, soprattutto, professionisti del tech, i lavori del digitale.

La scuola, insomma, non sta preparando i giovani ai lavori per i quali c’è domanda di assunzione.

Occorre invece formare manager del fare e professionisti del gestire: uno chef, che non è solo un cuoco ai fornelli, deve terminare gli studi sapendo fare un piano economico e i giusti acquisti, e avendo la capacità di promuovere e comunicare la propria attività.

La risposta da dare alla disoccupazione giovanile italiana ha una via privilegiata: puntare su fattori competitivi non delocalizzabili (qualità, tecnologie, innovazione, ma anche arte, storia, cultura, bellezza del territorio, di cui l’Italia è ricca) e investire nei percorsi specializzati, interdisciplinari e personalizzati, centrati sul tech e sul digitale (tech e medicina, tech e diritto, tech e amministrazione, tech e arte ecc.).

Potrebbe essere questo tempo un’opportunità senza precedenti per scommettere su nuovi curricoli di studio basati su programmi umanistici che formino una coscienza critica, conoscenza delle lingue e nuove competenze per l’innovazione, come il pensiero computazionale e l’intelligenza artificiale. Un’opportunità soprattutto per le tante scuole cattoliche presenti nel territorio italiano, che sono in prima linea nella formazione dei giovani.

Lo premettevo, si tratta di una scelta culturale da fare. Non è scontata, perché

il lavoro è afflitto da 7 grandi mali:

investimenti senza progettualità; finanza senza responsabilità; tenore di vita senza sobrietà; efficienza tecnica senza coscienza (principi); politica senza società; rendite senza ridistribuzione; crescita senza occupazione. Il cambiamento possibile richiede di sostituire i “senza” con altrettanti “con”! Nel farlo occorre recuperare lo spirito di sacrificio che ha ricostruito il Paese nei primi trent’anni dal dopoguerra. È questo anche l’impegno della Chiesa in Italia che sta investendo risorse e persone verso la Settimana Sociale di Cagliari. Ma anche questa tappa dovrà poi diventare cultura ecclesiale.

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