Spelta, da “Jair bianco” a mister

MONTANASO LOMBARDO Alberto Spelta, il “Jair bianco”, porta in giro per l’Italia il buon nome di Lodi. È lunga infatti la carriera dell’attaccante partito dal Fanfulla (ma che aveva cominciato da ragazzino nell’Azzurra e nell’Adda), prima come giocatore e poi come allenatore e accostato per le sue caratteristiche proprio all’ala destra brasiliana, punto di forza dell’Inter mondiale: «Già a Lodi mi avevano accostato a Jair, ma io scherzando dicevo sempre che era lui ad assomigliare a me - ride Spelta -. Giocavamo nella stessa zona di campo correndo avanti e indietro in modo un po’ ciondolante ed era logico fare un paragone». Spelta, classe 1942, lascia presto il Fanfulla dopo 24 presenze e 11 gol per il Varese in B: «Era stata una bella stagione per me e da giovane spensierato era logico pensare alle categorie professionistiche. Oltretutto ho avuto tanti bravi colleghi come Traspedini e Maraschi, che era già a Firenze ma quando tornava a casa mi aiutava con i suoi consigli e mi incitava a far bene». A Varese Spelta è subito promosso in A (giocando in due stagioni 59 partite con 12 gol) e poi va a Potenza in B (29 gare e 3 gol) col salto successivo a Mantova (127 partite e 17 gol) dove è tra l’altro protagonista della vittoria virgiliana che costa lo scudetto all’Inter: «Loro erano reduci dalla sconfitta in finale di Coppa dei Campioni con il Celtic e mai si sarebbero aspettati di perdere anche il campionato. Certo, è stata una partita strana con quella papera di Sarti nel finale che è costata cara. E se in un primo momento per noi era tutto bello, poi ci rendevamo conto che l’avevamo combinata grossa... E si capiva il loro dramma guardando i volti di Mazzola e Facchetti: personalmente, pur essendo juventino, mi è spiaciuto un po’...». Nel 1970-1971 Spelta scende in B a Modena, vincendo anche la classifica dei marcatori con 15 gol in 37 partite (insieme al comosco Magistrelli), ma l’anno successivo comincia la grande avventura a Catanzaro: «Allenatore era Seghedoni, che era di Modena e che quindi mi aveva seguito l’anno prima, portandomi dunque con sé in una squadra formata per lo più da sconosciuti, ma che ben presto diventa un gruppo di amici». Il Catanzaro appena arrivato in A, retrocede subito cedendo nel finale nonostante la storica vittoria sulla Juventus col gran gol di Mammì, ma torna dopo tre stagioni nella massima serie, con Spelta che gioca il suo ultimo campionato ad alto livello (in maglia giallorossa un totale di 133 partire e 29 reti. «Ma quello che è rimasto è il rapporto con i vari Palanca, Banelli, Branca, Silipo, lo stesso Ranieri, con cui passo ancora adesso le vacanze in Calabria: ci ritroviamo ogni fine anno e ci sentiamo così ancora ragazzi e ricordiamo un periodo davvero bello della nostra carriera». Spelta chiude a Lamezia, dove comincia l’avventura di allenatore davvero alla grande: «In tre anni arriviamo dalla Promozione alla Serie C,poi faccio una stagione alla Rossanese e torno a Catanzaro con la Primavera, allenando due giovani che faranno tanta strada come Massimo Mauro e Marco Borriello». Poi due stagioni in C1 prima a Rende e poi a Messina («Con la società fallita non ho mai capito come e perché»), il ritorno a Catanzaro e poi quello a Lodi, dove allena nel 1985/1986 il Fanfulla e successivamente altre squadre della zona, tra cui il Cavenago: «Per combinazione ora me lo ritrovo a Lodi salvando in qualche modo l’Eccellenza del Fanfulla: è una soluzione un po’ strana, ma speriamo se non altro che serva a rilanciare il calcio a Lodi. Certo, dispiace per una società gloriosa come quella bianconera che è stata anche in Serie B e che qualcuno ha ridotto così, costringendola al fallimento». Spelta nella quiete di Montanaso dove risiede dà anche una mano alla scuola calcio: «Quando qualche acciacco me lo consente mi piace ancora scendere in campo con i ragazzini, perché la passione per il pallone non ti abbandona mai». Anche perché in fondo è proprio questo che rimane dopo una carriera contraddistinta oltretutto da certi valori: «Ho avuto la fortuna di essere stato allenato da veri gentiluomini, uno su tutti Giancarlo Cadè, che hanno sempre privilegiato il rispetto, l’onestà e un corretto rapporto tra tutti i giocatori. E io ho sempre cercato di insegnare questo quando sono passato in panchina. Poi veniva l’aspetto tecnico». Che comunque serviva: «Allora un po’ tutti si giocava col 4-4-2, ma ho sempre ritenuto importante adattare il modulo alle caratteristiche dei calciatori, perché era meglio non complicare la manovra della squadra e far risaltare le loro doti».

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