«Un lavoro in Perù? È impossibile»

«Io e mio marito facciamo lo stesso lavoro, siamo operatori socio-sanitari»

Lo sguardo di Alessandra è penetrante e serio, incredibilmente serio. Nemmeno un sorriso ha illuminato il suo viso nel corso dell’intervista. Anzi, uno sì, mentre ricordava i Natali da bambina. Per il resto, l’espressione dura di questa donna piccola, apparentemente fragile, è stata il leitmotiv della sua vita. Giustificata, forse, dalla sensazione di non avere molte carte buone da giocare a dispetto dei doveri nei confronti di tutti, dalle figlie ai genitori. Partita per seguire il marito, Alessandra sognava di fare la cuoca a New York, in un locale tutto suo. Oggi, dodici anni dopo, è una operatrice socio-sanitaria che svolge il suo lavoro con passione. Guardandosi intorno, è sempre più convinta della scelta fatta alcuni anni fa: mentre la crisi miete le sue vittime, lei e il marito continuano serenamente a lavorare e a spedire i soldi a casa. E se forse oggi non ce n’è più bisogno, poco importa: in Perù trovare un impiego sarebbe impossibile.

Alessandra, è da molto che ti trovi in Italia?

«Sì, adesso che ci penso. Sono dodici anni. Mio marito sedici. Siamo qui da un bel po’, una vita. È proprio vero che il tempo passa e non te ne accorgi».

Di cosa vi occupate?

«Facciamo entrambi lo stesso lavoro, siamo oss, operatori socio-sanitari. Lavoriamo per la stessa struttura e siamo ben contenti. Voglio dire, il nostro è un lavoro molto faticoso, sia fisicamente che psicologicamente, considerato che ci troviamo sempre in mezzo a gente che sta male, e anche parecchio. Ma mentre all’inizio io avevo non poche perplessità, ora sono convinta».

In che senso?

«Hai ragione, ti spiego con calma. Il primo ad arrivare in Italia, sedici anni fa, è mio marito che, mentre la maggior parte dei suoi connazionali si butta nell’edilizia e affini, decide di tentare con questo mestiere. “Ho seguito il consiglio di un caro amico, vedrai che non ci pentiremo”. Il cantiere mi sembrava più “sicuro”, un lavoro di cui c’è sempre bisogno; l’oss, invece, qualcosa di precario, soprattutto per un uomo. Ma lui era lanciato e convinto. E aveva ragione. Ora, mentre molti dei nostri amici sono disoccupati o in cassaintegrazione, noi abbiamo due stipendi».

Tuo marito aveva ragione.

«Aveva ragione, eccome. È stranissimo: mentre prima di partire a casa non si sistemava nemmeno i calzini nel cassetto, qui riesce a occuparsi delle pulizie dei locali e delle persone con grande impegno e cura. Non l’avrei mai nemmeno scommesso».

Ti ha trovato lui il posto?

«A dire il vero sì, ma se legge si galvanizza troppo. “Alessandra, segui il corso”, mi ripeteva. E così ho fatto, lasciando definitivamente il mio lavoro da badante. Che però è stato una passeggiata».

Aspetta, torna un attimo indietro: cosa intendi con “subito”?

«Meno di tre settimane. Quelli erano i tempi d’oro, quando non facevi in tempo a disfare le valigie, che già era ora di lavorare. Adesso quando sento le mie amiche badanti mi deprimo: se restano senza lavoro passano mesi prima che riescano a trovare qualcos’altro, e tutto è complicato dal fatto che una badante quando non ha il lavoro non ha nemmeno la casa. Ne abbiamo ospitata qualcuna, più di una volta».

Che bravi.

«Se non ci diamo una mano fra di noi è la fine, non credi? Comunque, tornando alla mia vicenda, inizio come badante. La signora era meravigliosa: perfettamente autosufficiente, cordiale, una donna in gamba di più di ottant’anni. Ogni tanto mi dicevo: “Cavoli, questa famiglia mi paga per niente, per fare le pulizie”. In realtà non era proprio per niente: volevano che la signora non restasse sola durante il giorno e soprattutto di notte, nel caso avesse bisogno. Sai com’è, no? Mi dispiaceva non stare con mio marito, ma l’obiettivo era portare a casa più denaro possibile, non divertirsi».

Denaro per cosa?

«Per tutta la famiglia in Perù: le nostre tre figlie, che oggi a loro volta hanno dei bambini, e i nostri genitori, che con la pensione non ci facevano nulla, tanto era irrisoria. Noi eravamo, come dire?, la “forza motrice” della famiglia».

Perché parli al passato?

«Perché nel frattempo la situazione è cambiata: i miei genitori non ci sono più, a mio marito rimane soltanto il papà e le nostre figlie hanno un lavoro. Non c’è più tanto bisogno del nostro contributo».

Allora cosa vi tiene qui?

«Non abbiamo ancora l’età per la pensione e in Perù trovare un altro impiego non è così facile. In questo momento ritornare sarebbe un passo falso: significherebbe rinunciare a due stipendi italiani per lo sfizio di starsene a casa. No, così non va».

Cosa facevate prima di partire?

«Io e mio marito? Due mestieri completamente diversi: io la cuoca in una scuola, lui l’operaio in fabbrica. Due lavori purtroppo mal pagati. Il nostro sogno era emigrare negli Stati Uniti, fin da quando eravamo ragazzini. Volevamo vivere a New York e aprire un locale tutto nostro, con cucina tipica, una buona accoglienza e tanti clienti. Ma ottenere il permesso era non un songo, un’illusione. Così dopo un po’ di tentennamenti alla fine abbiamo optato per l’Italia».

E come è andata?

«Non abbiamo il locale, ma tutto sommato direi bene. Mentre sembra che il mondo vada a rotoli, noi riusciamo a galleggiare serenamente e dignitosamente. Di più non potevamo chiedere».

Le vostre figlie sono tutte in Perù?

«Nessuna ha voluto seguirci in questa impresa, ma in un certo senso è comprensibile: hanno potuto studiare e trovare un lavoro decente, questo grazie ai soldi italiani. Se lo stipendio è accettabile, nessuno di noi parte. Certo, non navigano nell’oro, ma stanno bene con loro le rispettive famiglie. Capisci cosa intendo?».

Credo di sì.

«L’esperienza mia e di mio marito è bastata per far stare bene la generazione successiva alla nostra e impedire alle nostre figlie di partire. Questo è un successo che ci rende felici della nostra scelta».

È stato difficile abituarsi a una nuova vita in Italia?

«Siamo latini, la lingua non è mai stata un problema, ma la cultura sì. All’inizio quando facevo la badante non sapevo nemmeno che piatti propinare alla signora che seguivo. Non andava mai bene niente, nemmeno la pasta. Poi con tanta pazienza, e qualche buon consiglio, anche io ho imparato ad apprezzare la vostra cucina. Se potessi aprire un ristorante qui, ora, sarebbe un gran successo: cucina sudamericana e italiana in un solo posto, per fare contenti tutti».

Vedo che il sogno ritorna.

«Sì, ma resta solo un sogno. Chi ce li ha tutti quei soldi? Certo non io e mio marito».

In tutto questo tempe siete tornati spesso in patria?

«All’inizio un’estate sì e una no, poi considerato anche che i nostri genitori non stavano bene, ogni estate. E sai qual è il bello? Ne parlavo l’altra sera con mio marito: che quando torni a casa sembra che il tempo si sia fermato, sembra di essersi salutati pochi giorni prima. Gli unici a lasciarci a bocca aperta sono i nipotini, che crescono alla velocità della luce. Ma per il resto torniamo e ritroviamo tutto l’anno prima».

È un bene?

«Forse no, ma senza dubbio è molto rassicurante».

E le tue figlie non sono mai state qui nemmeno in vacanza?

«Mai, ma vorremmo organizzare per questo Natale con la più grande e la sua famiglia. Sarebbe bellissimo, dopo tutti questi anni, festeggiare insieme, con i bambini. Sarebbe un po’ come tornare ai vecchi tempi, alle tavolate, alla festa in famiglia. Quanti ricordi».

Alessandra, hai progetti per il futuro?

«Nessuno e tanti nello stesso tempo. L’unico, verosimile, è continuare a lavorare e vivere questa vita così come viene. Nessuno può cambiare il proprio destino, no? Inutile quindi fare troppi progetti».

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