È simpatico, Eric. Uno che non si risparmia, nemmeno mentre racconta la sua storia. Con il cappello rasta e la sigaretta in bocca, nel parcheggio di un supermercato ci ha presentato il suo punto di vista, quello di chi la crisi la vive in prima persona, fortemente, passando da una serena sussistenza alla fame più nera.Per tirare avanti Eric chiede l’elemosina. Nemmeno ci prova, a vendere una cintura. Piuttosto riporta il carrello della spesa per ritirare la monetina da un euro che gli servirà, con tutte le altre, a non perdere l’ultima cosa che gli resta: il suo posto letto.«Ciao ragazzi, avete della moneta?».
Se vuoi posso lasciarti il carrello... «Grazie sorellina, tu sì che sei gentile».
Non è questione di gentilezza. Con tutto quello che ho speso se non ti lascio qualcosa mi sento in colpa... «Lo so, lo so che c’è la crisi. Guarda, ti dico che ho portato il mio curriculum dappertutto, ma non mi ha chiamato nessuno. E io in qualche modo devo pur tirare a campare. Quindi grazie per la moneta».
A volte mi chiedo se il problema sia davvero la crisi. Ti va di scambiare due parole? «Va bene. Su cosa?».
Sulla tua vita... «Sono in Italia da cinque anni. Cinque anni che non ho passato certo in questo modo. Fino a due anni fa lavoravo tantissimo. Ho imparato i ritmi italiani, mi davo da fare parecchio. Ho anche preso una brutta abitudine italiana, questa».
La sigaretta? «Sì, purtroppo, e adesso liberarsene è dura. Comunque, avevo un lavoro da magazziniere in una ditta, dove era impiegato anche un mio “fratello” senegalese, la persona che mi aveva trovato un lavoro al mio arrivo qui. Poi è stata la volta di questa maledetta crisi, che riguarda tutto il mondo, certo, ma che alla fine fa a pezzi soprattutto la gente come me. Morale della favola, lavoro sodo, mi sistemo, arriva la crisi e mi ritrovo a piedi».
Eri assunto regolarmente? «Certo, regolarmente, ma tramite un’agenzia di lavoro interinale. Mi rinnovavano il contratto ogni tre mesi, ma mi stava bene quel sistema, considerato che più o meno era così quasi per tutti. Poi però quando il mio capo mi ha detto “Eric, dal prossimo mese sei a casa” mi sono sentito trafiggere il cuore. Ma non ero ancora completamente a terra».
Cosa intendi dire? «Al mio arrivo in Italia ero riuscito a trovare un lavoro in tempi brevi, come ti accennavo tramite mio “fratello”».
Cosa intendi con tempi brevi? «Quattro mesi, più che soddisfacente considerato che non conoscevo una parola, e dico una, di italiano. Quindi ero convinto di avere tutte le carte in regola per trovare un altro lavoro. “Se non sono quattro, sono sei, Eric. Tiri la cinghia e ce la fai”».
Ottimista... «Con il senno di poi ti dico: decisamente sì. Ma all’epoca di credevo. E intanto i mesi passavano».
Come? «Portando in giro il mio curriculum per tutte le agenzie di lavoro interinale della città. Ormai sono schedato praticamente in ogni database, peggio di un criminale per la polizia. Poi ho anche fatto il giro delle aziende. Niente. Sai cosa vuol dire niente? Tutti mi rispondono allo stesso modo: “Se avremo bisogno ti terremo sicuramente in considerazione. Ma, sai com’è, no? In questo periodo c’è la crisi”. Io posso far fronte a tutto, ma non alla crisi».
Cosa intendi? «Immagina che il problema sia che non so parlare l’italiano: “Perfetto – penso –, mi ci metto d’impegno e lo studio”. Immagina che non sia in grado di svolgere il lavoro: “Perfetto – penso –, mi attivo in tutti i modi e vedo di farcela”. Anche se il problema è il mezzo di trasporto posso ingegnarmi. Ma cosa possa fare contro una crisi mondiale? È questo che mi rende nervoso: questo terribile senso di impotenza. E intanto sono qui».
Al parcheggio del supermercato... «Esattamente. E nemmeno cerco di vendere qualcosa. Riconsegno i carrelli, come ho visto fare agli zingari. Spero di uscire presto da questo stallo».
Tu cosa facevi nel tuo Paese? «In Senegal? Siamo una famiglia di mercanti, per la precisione di generi alimentari. Io davo una mano ai miei, ma non bastava: il lavoro non era sufficiente per tutti noi, intendo dire per permetterci di vivere dignitosamente. E allora io, il più giovane, mi sono sentito in dovere di fare qualcosa per migliorare la vita di chi mi stava intorno. Eccomi qui».
Perché l’Italia? «Ti rispondo come ho risposto a mia madre: “Perché no?”. Immagina: devi partire, cambiare continente, e tu non sei mai stato fuori dalla tua città. Converrai che una o l’altra parte del mondo fa lo stesso, no? Basta partire, no? Mi segui?».
Sì, sì. Sono un po’ allibita, ma ti seguo. «“Ovunque in Europa è meglio che in Senegal”, penso. Quindi appena un amico mi propone: “Vado in Italia, vieni?” la mia riposta non può che essere: “Perché no?”. Mi chiedi perché l’Italia. Perché no?, ti rispondo».
Quando si dice decidere con calma, facendo tanti ragionamenti e valutando tutte le possibilità... «Ben detto, sorellina. Nessun ragionamento, solo il sacrosanto bisogno di tentare. E sarebbe andato tutto bene se non ci fosse stata questa dannata crisi».
Ce la fai a vivere in questo modo? «Ho altre scelte? Devo farcela. In questo momento non ho i soldi né il cuore per tornare in patria».
Cosa intendi con “il cuore”? «Che se tornassi adesso, in questo momento, lo farei da sconfitto. E io non voglio essere l’unico idiota che si trasferisce in Italia, si ferma per cinque anni, e torna senza un soldo in tasca. Ho una dignità, cavolo. Quindi piuttosto resto qui a fare la fame finché non trovo lo straccio di un lavoro. No, non me ne vado».
Ho capito, ma mi sfugge il “come”... «Con la tenacia. Per il momento raccolgo monete giusto per tirare a campare e non perdere il posto letto in cui dormo. I miei amici più fortunati mi stanno aiutando, ma non posso contare su di loro all’infinito. Sto puntando sul passaparola. Sono passato da un’azienda tre volte in tre mesi. Secondo me se non demordo in qualche modo ce la faccio, ne sono convinto».
Non ti ho chiesto se hai famiglia in Senegal... «Non ancora, ma c’è una ragazza che mi sta aspettando. All’inizio volevo sposarla e farla venire qui. Lei era felicissima anche solo all’idea. Adesso, visto come sto vivendo e considerata la mancanza di prospettive, avrei un’altra idea».
Ossia? «Lavorare quattro o cinque anni e aprire qualcosa di mio in Senegal: un negozietto, un’officina. Sai quanti miei conoscenti hanno fatto in questo modo? Non navigano nell’oro, ma vivono più che dignitosamente».
Almeno hai le idee chiare... «Stavolta sì. Sono partito buttandomi in un’avventura di cui non conoscevo nulla, nessun risvolto se non le varie dicerie dei miei connazionali. Adesso ho capito come funziona, ma sono fuori dal gioco. Non mi resta che rimettermi in pista. Ce la farò, sorellina».
E io ti credo. Ma ti serve un grande “in bocca al lupo”. «Crepi».
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