Rubriche/StorieImmigrati
Mercoledì 11 Gennaio 2012
«Meglio il mio velo che certi pantaloni»
«Se uno mi chiede: “Da dove vieni?”, non so se dire dal Marocco o da Lodi»
Safiya è brillante, sveglia e quando si racconta dimostra un temperamento decisamente risoluto, che la rende simpatica. Con la parlantina vivace, gli occhi luminosi e un bel sorriso, ci ha portati nel suo mondo. Ossia quello di una giovane donna che sogna di costruirsi un futuro su misura, con una semplice ricetta di felicità: lavoro, famiglia e casa. «Non sono una che si accontenta – ci ha spiegato – e quando so ciò che voglio, perché questo non sempre accade, faccio tutto il possibile per ottenerlo. Ma se penso al futuro ho solo questi punti di riferimento in testa: il lavoro per realizzarmi e contribuire al benessere delle persone a cui voglio bene, la famiglia come vero valore, e la casa come rifugio dove sentirsi al sicuro. Manca qualcosa? Sì, la salute. Poi però basta: non occorre altro per essere felici».
Ciao, come ti chiami?«Safiya, perché me lo chiedi?».
Cosa ne dici di raccontarmi la storia della tua vita per il Cittadino?«Scherzi?».No.«Così? Qui, per strada?».
Hai freddo?«No».
E allora possiamo fare qui per strada. Cosa mi dici, ci stai?«Va bene, perché no? Cosa vuoi sapere?».
Il più possibile, racconta.«Mi chiamo Safiya, ma questo te l’ho già detto, ho ventuno anni, e vivo in Italia da sette anni, anzi otto. Sette e mezzo, va’».
Di dove sei originaria?«Del Marocco, un bel Paese, sai? È da molto che non torno. Forse per la prossima estate riusciamo tutti a fare un salto a casa. Cioè, la mia casa è qui».
Stai tranquilla, non è un interrogatorio, questo, è un’intervista. Non c’è una risposta giusta, si tratta della tua vita.«Vorrei essere precisa, ecco tutto. La mia casa è qui, ma anche in Marocco c’è casa mia, dipende dal punto di vista. A volte mi sento un po’ confusa. Se uno mi chiede: “Da dove vieni?”, prima di rispondere ho un attimo di smarrimento. Non so se dire dal Marocco o da Lodi. Questo perché un terzo della mia vita, a ben vedere il più importante, l’ho trascorso in Italia».
Vedo che porti il velo.«Al velo non ho voluto rinunciare. Non ho voluto e non ho potuto, entrambe le cose. Fa parte della mia tradizione e della mia religione. Solitamente lo abbino all’abito, per essere più alla moda. Lo porto anche con i jeans, mi vesto all’occidentale, ma non rinuncio».
Hai mai avuto dei problemi per questo?«A scuola alcuni ragazzi mi prendevano in giro e ogni tanto qualche compagna cercava di farmelo togliere, ma io non mi sono mai fatta particolari problemi. Meglio il mio velo di certi pantaloni a vita bassa su alcuni ragazzi decisamente sovrappeso. Insomma, prima di ridere degli altri bisognerebbe guardare un po’ più se stessi. Io, comunque, di problemi particolari non ne ho avuti, e mi sento perfettamente a mio agio così».
Quando sei partita avevi tredici anni. Eri felice di questa opportunità?«Decisamente no, considerato che pur di non partire ero disposta a salutare i miei genitori e mia sorella, e trasferirmi dai nonni. Ma i miei non erano d’accordo. In Marocco c’erano la scuola, gli amici, le mie abitudini. Non mi importava minimamente di venire in Italia. Di questo Paese sapevo poco, pochissimo. Solo che mio padre ci lavorava e che si stava meglio che da noi. Però mi sembrava strano questo concetto, perché tutto sommato io in Marocco stavo benone».
È stato difficile integrarsi?«No, non per me. Sono una che ama chiacchierare e anche se all’inizio per un marocchino imparare l’italiano è un’impresa, appena si entra nella logica della lingua il miglioramento è costante. E poi in qualche modo ci si capisce sempre, no? Tornando alla domanda, a scuola è sempre andato tutto benissimo, sia con le amiche, sia con lo studio».
E adesso cosa fai?«Do una mano a mia mamma, lavo, stiro, cucino, sistemo la casa. Da quando ho preso il diploma non ho un lavoro, quindi mi rendo utile in casa. Avrei voluto continuare a studiare, ma non avevamo abbastanza soldi per l’università».
Di cosa si occupano i tuoi genitori?«Mio padre fa l’operaio in una ditta della zona, mentre mia mamma è casalinga. Siamo in quattro con uno stipendio solo, quello di mio padre. Per questo motivo non ho potuto frequentare l’università. Certo che se riuscissi a trovare un posto di lavoro potrei portare a casa dei soldi e magari permettere a mia sorella di frequentare l’università. Spero che vorrà cogliere questa occasione, sempre che io prima riesca nell’impresa “ricerca di un lavoro”».
Cosa avresti voluto studiare?«Come altre mie compagne scienze dell’educazione. Ogni tanto quando le incontro mi faccio raccontare qualche lezione. Poi dopo un po’ si scocciano e mi dicono: “Safiya, basta, non siamo qui per studiare”. In fondo hanno ragione».
E per quanto riguarda il lavoro?«Ho portato in giro il mio curriculum: supermercati, negozi, bar, esercizi commerciali di qualunque tipologia. Ho anche risposto ad alcune inserzioni, ma niente. Sarà la crisi? Sarà che sono una donna, che sono marocchina, che ho il velo o che non ho la patente? Non ne ho idea, credimi. Ormai non so più a chi rivolgermi. Ma come fanno gli altri? Non sarò l’unica persona in Italia che cerca un lavoro con un diploma in mano, no?».
No, decisamente. «Comunque io non mi do per vinta, e ogni tanto ci riprovo. Adesso ho anche allertato alcune conoscenze di mio padre: se sentono che qualcuno ha bisogno di un’operaia o una commessa, io sono qui. Domani poi torno in un’agenzia interinale. Chissà, magari è la volta buona».
Ti vedo motivata.«Certo. In Marocco non sono moltissime le donne che lavorano, ma già prima di partire io le guardavo con una certa ammirazione. “Lavorerò anch’io – mi dicevo –, mi renderò utile, sarò indipendente”. Non pensavo fosse così difficile».
Tua sorella quanti anni ha?«Ne ha sedici, frequenta ancora le scuole superiori. Siamo molto diverse io e lei».
In che senso?«Lei è più riservata, meno testarda. È una che si accontenta, per questo a volte mi chiedo se mai vorrà continuare gli studi. Ha una visione più “tradizionale” della vita. Ogni tanto la prendo in giro per questo e lei si innervosisce. Poi arriva mia madre e mette a tacere tutte».
A conti fatti, sei contenta di essere partita?«Oggi sì, sono contentissima. Mio padre ci ha offerto delle opportunità interessanti, imponendoci di seguirlo. Credo che ormai nessuno di noi tornerà a vivere definitivamente in Marocco. Di questo siamo tutti consapevoli ma nessuno ne parla. Curioso, no?».
Cosa sogni per il tuo futuro?«Niente di speciale: un lavoro, una casa e una famiglia; oltre alla salute, ovviamente. Il minimo indispensabile per essere felice. Che ne dici, posso sperare di farcela?».
E perché no?«Giusto, perché no? Ce la farò, io non demordo».
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