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Mercoledì 23 Febbraio 2011
Manoi adesso realizza siti Internet
È arrivato dal Senegal, ha una casa, una famiglia felice e due lavori
La storia di Manoi è una bella avventura, una di quelle in cui il caso, la sorte, il destino o chissà che, ha giocato un ruolo chiave, mischiando le carte, rimettendole sul tavolo e poi lasciando all’uomo – e in questo caso anche alla sua compagna di vita – la possibilità di decidere.
Manoi è arrivato in Italia dal Senegal con un giro tortuoso, grazie a una borsa di studio che poi si è trasformata in occasione di lavoro e infine matrimonio. Strano, vero?
Oggi, a quarantatre anni, questo uomo determinato, dai modi cortesi, il sorriso solare e un simpatico accento africano, ha ottenuto più di quel che sperasse: ha un lavoro da informatico che ama, una famiglia che è per lui ragione di vita, una bella casa e una rete di amicizie che lo fanno sentire integrato.
Quando parla, Manoi dimostra tutta la saggezza che la sua terra racchiude. Non ha pretese, non ha timori, semplicemente sorride alla vita e si prepara a cogliere tutto ciò che di buono ha da offrirgli.
Con questa tranquillità Manoi ha tracciato la sua strada. Ora vuole che la sua serenità diventi quella dei suoi figli.
Salve Manoi, sarebbe disposto a raccontarci la storia della sua vita?
«Certo, ma perché mi dai del lei? Non è meglio un sano “tu”, così entriamo subito in sintonia? Il lei mi fa sentire molto lontano dalla gente».
Perfetto, vada per il tu. Sei d’accordo?, ci racconti la tua storia?
«Volentieri, ma ti dico subito che è una storia curiosa, ricca di coincidenze che hanno lasciato di sasso anche me. Da dove vuoi che cominci?».
Dall’Africa. Va bene?
«Ok, dunque, sono nato quarantatre anni fa in una grande città del Senegal, da una famiglia non ricca, ma che nemmeno poteva essere annoverata fra i “poveri”. Io e i miei tre fratelli, infatti, abbiamo tutti potuto studiare fino alle scuole superiori. Io, però, ero più bravo degli altri. Non lo dico per vantarmi, ma perché fa parte della mia storia».
Ci credo. Ma in che senso?
«Nel senso che subito dopo il liceo ho vinto una borsa di studio che mi ha permesso di frequentare un corso di informatica in Europa, il sogno di ogni africano. E qui la mia vita ha assistito a una svolta. Credevo che come mio padre avrei trovato un posto da impiegato in Senegal, che avrei cresciuto i miei figli nella mia terra e vissuto secondo le nostre tradizioni. Invece no, quella borsa di studio mi ha portato davvero lontano».
Dove, per la precisione?
«In primo luogo a Parigi, dove ho studiato per due anni e ottenuto la mia specializzazione, ma non solo. Eravamo un gruppo di ragazzi ad aver avuto quella meravigliosa occasione, l’opportunità di conoscere l’Europa, di viverci per qualche anno, di incontrarsi con una nuova cultura. Fra questi c’era una donna meravigliosa, che oggi è diventata mia moglie. L’avevo adocchiata già sull’aereo, bellissima. Poi, con i corsi e la quotidianità, è scoccata la scintilla: ci siamo fidanzati».
Cosa è accaduto trascorsi i due anni?
«A quel punto il mio permesso di soggiorno scadeva, esattamente con il termine del corso. Dovevo uscire immediatamente dalla Francia, imbarcarmi sul mio volo per l’Africa, tornare a casa e iniziare a cercare un lavoro. Insomma, era la fine delle danze e l’inizio di qualcosa di ignoto. Io non me la sentivo, volevo provare un’altra strada».
Quale?
«L’Italia, il vostro bel Paese, dove un amico poteva ospitarmi. Ricordo ancora il giorno in cui ne ho parlato a mia moglie, allora solo fidanzata: “Io vado, sento che è la scelta giusta. Vorrei che tu fossi con me in questa avventura. Ce la possiamo fare, credimi”. Ma lei non era molto dell’idea. Aveva paura di ritrovarsi per strada, senza un lavoro. Allora le ho proposto: “Facciamo così: mi fermo sei mesi. Se tutto va bene mi raggiungi a Milano, altrimenti torno io in Senegal. Non ci dobbiamo perdere di vista: io voglio sposarti”».
Sei un uomo deciso.
«Più che altro non voglio lasciarmi sfuggire le occasioni: ci sono treni che passano una volta soltanto. O Sali in carrozza o saluti i passeggeri. Io non amo stare a guardare. Beh, sai che ti dico? Ho bussato a tutti i portoni delle aziende informatiche del milanese. Avevo le pagine gialle sottolineate, evidenziate e cerchiate. In capo a tre mesi avevo anche un lavoro. A tempo determinato, certo, ma pur sempre un lavoro. A quel punto ho alzato la cornetta e chiamato la mia fidanzata: “Vieni qui, troverai un lavoro anche tu”. Inutile dire che per risparmiare abbiamo scelto il sud milanese come luogo in cui vivere».
Tua moglie ha trovato lavoro?
«Certo, nel giro di pochi mesi. Poi, dopo due anni, è nato il nostro primo figlio, un bambino bellissimo che oggi sta entrando nell’adolescenza. Abbiamo cercato di crescerlo “all’africana”».
Ossia?
«Con tranquillità, senza troppe preoccupazioni. So di gente che prima di fare assaggiare un cibo al figlio si fa mille scrupoli chiedendosi se sarà allergico e se ci saranno dei problemi o, ancora, che disinfetta vestiti e superfici. Noi no, noi siamo sereni e pensiamo che tutto andrà bene, sempre. Da noi i bambini giocano nella natura, corrono a piedi nudi e si arrampicano sugli alberi. E sono felici».
L’immagine è bellissima.
«Avresti dovuto vedere i miei figli la prima volta che siamo tornati in Senegal. All’inizio erano titubanti poi, una volta capito l’andazzo, si sono buttati con gli altri bambini. Erano al settimo cielo, con gli occhi che brillavano. Qui, invece, possono solo giocare in casa. Ultimamente mia figlia mi ha chiesto di andare a scuola da sola».
E tu?
«Ho dovuto dirle di no, pur sapendo che andare a scuola a piedi favorisce l’autonomia, consente di fare un po’ di movimento e sarebbe una cosa giustissima. Ma non mi fido. Ovviamente della gente, non di mia figlia».
Ti senti più vicino alla cultura italiana o a quella africana?
«Ti rispondo che vorrei prendere il meglio di entrambe le culture».
Vorresti spiegarci meglio?
«La cultura africana vive su una forte rete sociale, fortissima direi. Questo è un bene perché hai sempre qualcuno su cui contare, ti senti le spalle coperte e dove non arrivi tu arrivano gli altri. Se il padre non provvede alle esigenze dei figli, ad esempio, ci pensa il fratello. Ma capirai che questo è sì un vantaggio, ma anche un limite: nessuno è responsabile fino in fondo. Al contrario, la cultura italiana si basa sulle responsabilità individuali, ma rende difficili le relazioni sociali. Noi qui abbiamo cresciuto i nostri figli da soli e notiamo che i nostri amici italiani, con cui abbiamo un rapporto bellissimo, non hanno quasi mai famiglie “solide” su cui contare. Non solo».
Cos’altro?
«Noi siamo più sereni, non rassegnati, attenta bene, ma “rilassati”. Anche questo può essere un limite, se ci si “rilassa” troppo e non si lavora. Potrei andare avanti all’infinito, ma credo di averti dato un’idea del perché io voglia tenere il meglio di entrambe le culture».
Tua moglie lavora ancora?
«Ha dovuto smettere con la nascita della seconda figlia perché come ti accennavo non abbiamo i nonni vicini a darci una mano. Le è dispiaciuto moltissimo, sai? Il lavoro la faceva sentire realizzata. Non solo: aveva studiato tanto per specializzarsi. Quando me ne parla la capisco benissimo. Purtroppo ora che il tempo per lavorare ci sarebbe, non riesce più a trovare un impiego».
Questo è un classico.
«Nessun problema, possiamo andare avanti così. Anche perché io, dal canto mio, ho iniziato a fare un secondo lavoro per garantire ai miei tutto ciò di cui hanno bisogno. È faticoso, ma almeno posso dire che non ci manca nulla».
Cosa fai?
«Realizzo siti Internet per clienti privati. Non tolgo il lavoro alla ditta che mi ha assunto, visto che la nostra clientela è rappresentata esclusivamente da aziende. Ci tengo a precisarlo perché anche il mio datore di lavoro è stato informato. Faccio il possibile, da casa, nei fine settimana e di notte».
Cosa vorresti per il tuo futuro?
«Ho già avuto tutto ciò che un uomo può desiderare, non chiedo niente al futuro, almeno non per me. Spero solo che i miei figli, la ragione della mia vita, abbiano tutta la serenità che, inaspettatamente, ho avuto io. Se loro sono felici, io sorrido».
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