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Mercoledì 23 Marzo 2011
L’incredibile storia di Boris, boliviano
Le suore di Sant’Anna e una famiglia lodigiana gli hanno cambiato la vita
La storia di Boris conferma mirabilmente come tanta buona volontà e un po’ di fortuna possano risolvere le situazioni più avverse. La buona volontà ce l’ha messa Boris, venticinque anni, una moglie, due figlie e un monolocale in Lodi. La fortuna, invece, ha avuto il volto di persone speciali, incontrate lungo il cammino: una famiglia che ha trasformato un rapporto di lavoro in una vera amicizia e le suore della Casa dell’Accoglienza Rosa Gattorno, le quali ancora una volta non si sono tirate indietro di fronte a una richiesta d’aiuto. Boris è giunto in Italia su consiglio della madre, partita prima di lui: «Quando sono arrivato non sapevo fare niente, non avevo mai lavorato. Quello che sono lo devo a chi mi ha aiutato, proprio quando ne avevo più bisogno. Non avrò mai modo di ringraziarli abbastanza». È vero, ma a volte tendere una mano diventa più facile, se dall’altra parte c’è qualcuno perbene. Boris è così, bastano poche parole per capirlo: un bravo ragazzo, uno di quelli che subito, senza ombra di dubbio, ispirano fiducia.
Buongiorno Boris, possiamo chiederti di raccontarci la tua storia?
«Certo, perché no? Puoi anche scrivere il mio vero nome: non ho nulla da nascondere».
Va bene. Di dove sei?
«Sono di La Paz, la capitale della Bolivia. Ho vissuto lì fino a cinque anni fa con mia mamma, mio papà, due fratelli e una sorella».
Cosa facevate per vivere?
«Mio papà era un minatore: lavorava in una miniera d’oro fuori città. Mia mamma, invece, oltre a occuparsi dei figli vendeva per strada succhi di frutta preparati in casa, nella nostra cucina. Io non ho mai lavorato. Subito dopo la scuola superiore avevo fatto il servizio militare, un anno in tutto, non come adesso che si svolge solo nei fine settimana. La coscrizione non era obbligatoria a tutti gli effetti, ma lo diventava per l’espatrio o l’iscrizione all’università. Mi è andata bene: grazie a quell’anno di leva sono potuto partire e oggi mi trovo qui».
Perché l’Italia?
«Per una coincidenza particolarmente fortunata: il fratello di mia mamma all’epoca si trovava in Vaticano. Gli mancavano cinque anni per diventare prete e aveva quindi parecchie conoscenze. Sapeva di come la mia famiglia se la passasse male dal punto di vista economico e di come la situazione fosse insostenibile. L’Italia poteva rappresentare una risposta».
Chi è partito per primo?
«Mia mamma, che è andata direttamente a Roma. Sono state le suore a metterla in contatto con la Casa dell’Accoglienza Rosa Gattorno di Lodi, dove è stata accolta con grande spirito. Poi è arrivato il mio turno. Avevo bisogno di denaro, perché la mia ragazza, oggi mia moglie, era incinta e nessuno di noi due poteva contare su uno stipendio. Non volevo crescere la mia bambina senza soldi, senza possibilità. Quando sono partito aveva cinque mesi, era ancora una frugoletta. Pensa, non ha conosciuto il padre per cinque anni. Avevamo solo il telefono a unirci».
L’hai più vista da allora?
«Grazie al cielo sì. Avendo accumulato molte ferie a febbraio sono partito per un mese. Non puoi immaginare: rivedere dopo cinque anni il tuo Paese e riabbracciare tua figlia è qualcosa di meraviglioso, non ha prezzo. Credo di aver recuperato in quel mese un po’ di tempo perso con la mia bambina. È stato semplicemente bellissimo».
Dicevi che è stata tua mamma a consigliarti di venire qui.
«Esattamente. Quando sono partito non sapevo fare nula. Non avevo mai lavorato e non avevo la minima idea di come muovermi in questo Paese. Ma è andato tutto benissimo, nonostante le difficoltà iniziali. Le suore mi hanno accolto a braccia aperte, letteralmente. Per parecchio tempo ho dormito in un posto letto – sai, i classici appartamenti affittati a più persone – gestito da un ecuadoriano. Non avevo un impiego, ma passavo spesso dalla Casa dell’Accoglienza a dare una mano per i lavori pesanti, quelli da uomo. Nel frattempo mi preparavo alla mia nuova vita».
Come?
«Studiando l’italiano. Il primo lavoro, così come il secondo, è arrivato grazie all’aiuto delle suore: facevo la raccolta della carta e della plastica per l’Oratorio di Sant’Alberto, a Lodi. Poi ho trovato un posto da badante, che ha meravigliosamente cambiato la mia vita».
Raccontaci.
«Dopo un periodo iniziale in nero, sono stato messo in regola da una famiglia eccezionale della Muzza, a cui vanno tutto il mio affetto e la mia stima. Avevo un posto fisso, godevo di diritti, non dovevo nascondermi: ero “regolare”. Bellissimo. Spedivo periodicamente a casa parte del denaro per aiutare economicamente la mia famiglia. La mia ragazza voleva venire in Italia con me, lavorare anche lei per realizzare un sogno. Così un giorno le ho comprato il biglietto aereo. È arrivata fino a Roma, e poi è stata rispedita a casa».
Perché?
«Perché non aveva abbastanza soldi per dimostrare di essere qui per turismo. Allora mi sono organizzato e sono riuscito a trovare un amico che le ha preparato una carta d’invito».
Ora tua miglie è qui?
«Certo. Ha vissuto per qualche tempo nello stesso appartamento dove ho vissuto io, poi i miei datori di lavoro le hanno trovato un posto da baby-sitter che le ha permesso di sistemarsi e mettersi in regola. Ripenso alla scoperta di una nuova gravidanza come alla ciliegina sulla torta di un periodo felice, che ci ha visti anche marito e moglie a Turano. È stata una festa indimenticabile, quella del nostro matrimonio, con tutti gli amici italiani e non. E vuoi sapere una cosa? I miei datori di lavoro ci hanno regalato il pranzo, i datori di lavoro di mia moglie le fedi».
È molto bello sentire che ci sono legami così forti, che c’è gente pronta a tendere una mano senza chiedere niente in cambio.
«Io non avrò mai abbastanza parole per ringraziare chi mi ha aiutato qui, mai».
Adesso cosa fai?
«Vivo con mia moglie e mia figlia in un monolocale a Lodi. Lavoriamo per la stessa famiglia, la mia, entrambi. Lei al mattino e io al pomeriggio. È andata così perché io ero disposto a cedere il lavoro a mia moglie che ne aveva più bisogno, ma i nostri datori di lavoro non hanno voluto sentire ragioni: “C’è spazio per tutti e due”, hanno detto, dimostrando ancora una volta le persone incredibili che sono. Quindi, eccoci qui».
E la vostra prima figlia?
«È sempre in Bolivia, con i nonni materni. Mentre la seconda ha la doppia cittadinanza, la prima non può raggiungerci se non attraverso il ricongiungimento, che in questo momento non è possibile. Comunque i nostri progetti sono chiari».
Ossia?
«Fra un paio d’anni mia moglie torna in Bolivia per stare vicina alla bambina: dovrà essere seguita quando andrà a scuola. Io invece resto qui ancora un po’ per mettere da parte i soldi necessari ad aprire un’attività tutta nostra e a far fronte agli imprevisti. Non vogliamo ritornare nella situazione di prima, non vogliamo più avere paura del futuro».
Quanto tempo ancora?
«Non ne ho idea. Il necessario, perché lavorando in Italia si possono fare molte cose: mio padre non è più minatore e la sua salute va decisamente meglio, la mia famiglia non è più povera e noi siamo felici».
E tutto è bene quel che finisce bene.
«Merito delle persone che ho incontrato».
Merito anche tuo, dai. Adesso, cosa farai?
«Sto aspettando un amico: dobbiamo organizzare la festa della Madonna, il 15 agosto. Iniziamo con ampio anticipo perché vogliamo che per quella data tutto sia a posto. Suoneremo con il nostro gruppo autoctono, non so se ci conosci: siamo i Pujllay».
Hai imparato a suonare in Italia?
«Sì, grazie a un uomo che ha messo in questo progetto anima e corpo, facendo addirittura arrivare i costumi dalla Bolivia. Ma questa è un’altra storia».
Che magari un giorno ci racconterai. Grazie Boris.
«Grazie a te, e passa a trovarci ogni tanto».
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