«La nostra casa ormai è qui in Italia»

Ottavia è partita titubante, convinta di stare commettendo un errore. Ritrovatasi disoccupata dopo una vita in fabbrica, ha seguito le orme del marito in Italia, portando con sé i tre figli piccoli. L’inizio è stato tragico: un grave incidente, sei mesi di recupero e i bambini che non velavano più andare a scuola. Oggi, nove anni dopo, è una donna appagata: lei e il marito hanno un lavoro, i ragazzi si “sentono” italiani e ormai tutti considerano “casa” la loro villetta fuori città. La soddisfazione di Ottavia è tangibile, basta osservarla mentre racconta.

Allora, Ottavia, eccoci qui. Cosa prendi?

«Un caffè, grazie».

Anche per me, grazie. Da quanto tempo vivi in Italia?

«Nove anni. Non poco. Ma sai che mi sembra molto di più?».

Davvero? La maggior parte delle persone che intervisto sostiene il contrario, di sentirsi “appena arrivata”.

«No, la mia vita precedente è così lontana. È un’altra vita».

Cosa facevi prima di partire?

«Aspettavo notizie da mio marito, è stato lui il primo a prendere le valigie in mano. Lavoravamo nella stessa azienda, entrambi operai. Sapevamo che gli affari non andavano, ma non avevamo capito che ormai la ditta era arrivata alla frutta. Nel giro di due mesi ci siamo ritrovati entrambi a casa, prima io e poi, due settimane dopo, lui».

In che settore lavoravate?

«Apparecchiature elettriche, se si dice così. Insomma, non avevamo più né lavoro né stipendio, e a casa c’erano tre figli piccoli da mantenere, due maschi e una femmina. Adesso hanno venti, diciassette e quattordici anni, ma all’epoca erano dei bambini».

Come avete fatto?

«Come spesso accade in Romania, non avevamo nemmeno da parte molti soldi, giusto una piccola somma per le emergenze, che poteva bastare per tamponare la situazione. Mio marito ha iniziato a fare il giro delle aziende, ma senza risultato. Io, invece, ho subito trovato un lavoro da cameriera in un bar, cinque ore al giorno».

Bastava?

«Bastava? Non ci compravo nemmeno da mangiare per tutti. Ecco che allora mio marito decide di seguire i preziosi consigli di suo cugino, quello che a detta sua aveva trovato fortuna in Italia. Devo essere sincera?».

Certo.

«Io non volevo neanche vagamente che mio marito partisse: ero convinta di riuscire a trovare una soluzione in Romania, nonostante vedessi che chi stava bene aveva necessariamente un parente all’estero. Ossia, moltissime famiglie nel quartiere. Ma questa è un’altra storia».

Perché?

«Perché la gente che viveva nel mio quartiere si è dimezzata. Sono emigrati tutti. È come se in qualche modo in Romania non si potesse vivere, non so se mi spiego».

Credo di sì.

«Il Paese non offre nulla e la gente scappa. È triste. Comunque, come dicevo è un’altra storia, potremmo parlarne per due ore. Torniamo a noi: mio marito parte e ci lascia con il fiato sospeso per due mesi. Poi ecco che arrivano i primi soldi. Ricordo che in casa abbiamo fatto una piccola festa, io e i bambini. I mesi passavano e la nostra situazione continuava a migliorare. Sembrava un sogno».

Che lavoro aveva trovato tuo marito?

«Faceva e fa il tuttofare in una ditta della zona, si occupa un po’ di tutto. Se c’è un problema, ci pensa lui».

Tu intanto continuavi a fare la cameriera?

«Esattamente, con poche soddisfazioni e pochi risultati economici, ma almeno a quel punto eravamo al sicuro: ci arrivavano puntualmente i soldi e non dovevamo più preoccuparci».

Chi ha avuto l’idea di trasferire tutta la famiglia in Italia?

«Io, e a quel punto mi sembrava la scelta più logica del mondo. Se le cose qui andavano tanto bene, perché non fare un salto di qualità, perché non cambiare drasticamente? Mio marito era d’accordo e la possibilità c’era. Il tempo di ottenere i documenti, ed eravamo in viaggio verso questo Paese, che ora è diventato un po’ nostro».

Come è andata all’inizio?

«Malissimo. I bambini non riuscivano a integrarsi a scuola al punto da scappare e io avevo trovato un lavoro in cascina che mi teneva impegnata parecchie ore e mi costringeva a lunghi spostamenti in bicicletta».

Quanto lunghi?

«Poco meno di dieci chilometri per andare e altrettanti per tornare».

Ah, però.

«Ti assicuro che in inverno non è il massimo. Per fortuna nelle giornate peggiori ci pensava mio marito ad accompagnarmi in macchina. La patente è il prossimo impegno che mi sono presa, perché qui non puoi pensare di spostarti a piedi o con i mezzi. È stato durante uno di quegli spostamenti che ho avuto l’incidente».

L’incidente?

«Sì, sono quasi morta, sai? Un’auto si è avvicinata troppo e io sono finita fuori strada, battendo la testa su una roccia e frantumandomi in più punti le ossa di braccia e gambe. Mi ci sono voluti più di sei mesi per rimettermi in sesto. Sono grata alle persone che mi hanno seguita, perché mi hanno fatta sentire a casa».

Che bravi.

«Non bravi, bravissimi. Io che ero l’ultima arrivata, mi sentivo trattata come una di voi. Questo fa onore alla sanità italiana. Tornando all’incidente, sei mesi dopo ero in piedi, ma non avevo la minima intenzione di ricominciare a lavorare in cascina. Ed ecco che arriva il colpo di fortuna».

Quale?

«Nella ditta dove lavora mio marito devono sostituire un’operaia che va in pensione. “Eccomi”, ho pensato. È andata bene, e ora ho anch’io un lavoro a tempo indeterminato. Merito soprattutto di mio marito, che ha saputo costruire un rapporto di fiducia con la proprietà. Impegnarsi paga».

Adesso?

«Adesso entrambi abbiamo un impiego. C’è la questione dei turni, perché in produzione si lavora giorno e notte, ma riusciamo a organizzarci bene con i bambini, che continuo a chiamare bambini ma ormai sono ragazzi. Gli stipendi ci permettono di vivere più che dignitosamente e siamo anche riusciti a comprarci una villetta fuori città. Va tutto bene, ecco».

Direi benissimo.

«E chi se lo aspettava prima di partire? Io a ben vedere ero addirittura contraria. Ho fatto bene a lasciare che le cose andassero come dovevano».

E la vostra casa nel vostro quartiere?

«L’abbiamo tenuta. È vuota anche lei, come molte altre. Ci torniamo per le vacanze, per mantenere un legame con la nostra terra, ma sappiamo che finirà con noi, con me e mio marito».

Davvero?

«I ragazzi rifiutano la Romania. Dicono che non si trovano, insistono che vorrebbero passare le vacanze altrove, “tanto quella non è casa nostra”. A me dispiace, ma evidentemente è così che doveva andare».

Tu vorresti fermarti qui per sempre?

«E chi torna? Certo, si resta in Italia. La nostra casa è qui».

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