Fondamentale l’esperienza del rapporto con i malati

Partirò da un ossimoro: sto ragionando in modo irrazionale. Vivo il momento della pensione, in termini passionali. Come se si trattasse di un allontanamento dal mio ruolo, quasi non accettassi la definizione di pensione di anzianità o di vecchiaia (la buona sorte vuole che le abbia raggiunte). Ad aiutarmi sento l’altra sera in televisione tra una telefonata e l’altra, quindi senza capire il contesto entro il quale si pone, un motto riportato da Beppe Severgnini, giornalista, scrittore e saggista di questa terra, ”Gli an ien an”, che mi riporta alla realtà. Sullo stesso registro mi viene spontanea una battuta che ultimamente ripeto. La dico da laico: “Povero me”, che richiama invece una preghiera cristiana: Kyrie eleison. Mia moglie, più saggia di me, mi richiama ogni volta, non bestemmiare (o meglio, altrettanto laicamente mi dice: “Non dire sciocchezze”). Io so benissimo che il momento storico-economico è tale che il mio Kyrie è una bestemmia: nei confronti dei poveri, gli ultimi, i veri diseredati o tutti coloro che, meno diseredati, ma altrettanto sfortunati, hanno impegnato la loro vita di sacrifici nel far studiare i figli; senza poi vedere i sacrifici dei genitori e dei figli premiati da una sicura professione e dunque con un futuro da costruire senza questa certezza economica. Ciò che invece accadde ai miei e a me (anche se mio padre non arrivò neppure alla mia laurea). Devo ringraziare mio padre e mia madre che investirono nei miei studi tutta la loro fatica, tutti i loro sforzi, che oggi mi appaiono eroici: non ricordo che ci furono mai vacanze o ferie. La ragione mi porta dunque ad affermare: ringrazio la vita per la mia professione che ho amato ed amo e professo con passione; devo abbandonare quell’ atteggiamento che viene definito “melanconico” che ho visto sabato scorso in un quadro di Giorgione in una mostra a Padova dedicata alla collezione di Pietro Bembo, la grande anima letteraria del Rinascimento italiano. Un quadro è intitolato “Doppio ritratto”. In primo piano un giovane pensoso, il volto chino sorretto dal palmo della mano, lo sguardo sognante; nell’altra mano un melangolo, arancia amara, simbolo dell’amore (in questo caso un amore sofferto, forse finito o non corrisposto e dunque mai iniziato). Dietro, un secondo volto giovane, un accenno di sorriso sulle labbra carnose, espressione di un amore più sensuale. La mia passione infine è stata corrisposta, pur con la necessità di rinvigorirla ogni giorno, rinnovarla. In particolare mi ha regalato molte soddisfazioni personali e di gruppo la seconda metà della vita professionale, tutta passata a Lodi. I progetti che avevo in mente erano molti, alcuni realizzati altri no; come per tutti, in tutte le esperienze di vita. L’esperienza fondamentale è stata il rapporto con i malati, la volontà di dare il meglio (di me e dei miei collaboratori); ho creduto a lungo al concetto che il meglio venisse dallo studio e in parte continuo a crederlo. Ma alcuni malati mi dicono: “Ho fiducia in voi, nella medicina, ma soprattutto ho fede. Prego dunque perché le vostre menti e le vostre mani siano illuminate e guidate”. Chino il capo e ringrazio per la preghiera.

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