Sulle ceneri dell’antica abbazia

Doveva essere ricchissima, la piemontese e nobildonna Alsenda; e più ancora di beni materiali, lo era di buoni sentimenti e timorata del Cielo, tanto che quando correva l’anno di grazia 979 aveva finanziato la fondazione di un monastero ad Arona, voluto per evitare la scomunica ad un suo fratello, reo di avere appiccato il fuoco al portico della basilica di San Paolo di Roma.In questo percorso di preghiere, penitenze, donazioni, aveva introdotto anche i suoi cinque figli. Una di loro, Rolenda, aveva sposato il maggior proprietario terriero lodigiano del secolo XI: tale Ilderado da Comazzo. Quest’ultimo non doveva essere uno stinco di santo se è vero che una volta si trovò a chiedere l’assoluzione dei propri peccati direttamente al Papa Benedetto IV, il quale, per evitargli le fiamme dell’inferno, gl’intimò di andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, dove si sarebbero dovuto fermare minimo tre anni, e di recarvisi lì senza cavallo, a piedi nudi, e con l’obbligo, durante il tragitto, di non sostare mai più di due notti consecutive per riposare. Ilderado quasi preferiva i tormenti dell’inferno, ma provò ugualmente a chiedere al pontefice un diverso risarcimento: così ricevette l’invito a costruire un monastero nella zona di Camairago.E probabilmentesempre ad un ordine ecclesiastico, legato a qualche penitenza, fu dovuta la fondazione dell’Abbazia di Santo Stefano Lodigiano, edificata sempre dalla nobildonna Alsenda e dai suoi figli. Il monastero, immediatamente donato ai benedettini e successivamente passato ai cistercensi, acquisì solo nel tempo una sontuosa monumentalità, poi irrimediabilmente perduta; quando fu fondato, nel 1020, anno più anno meno, altro non era che una piccola chiesetta, al cui fianco erano poste alcune cellette. Di quel plesso monastico è rimasto molto poco, quasi niente, ma non è mai venuta meno l’ammirazione per questo luogo.

LA PROPRIETÀ della possessione Abbazia è dal 1969 della famiglia Rancati. Così, in questo pomeriggio ricco di luci, sono ospite del signor Franco, agricoltore di antico stampo.Il primo Rancati che memoria ricordi, ad esempio, si chiamava Francesco, ed era stato sindaco di Caselle Landi, paese nel quale viveva in qualità di affittuario di una delle tante possessioni del marchese Landi.Suo figlio, Ezechiele, nato nel 1850, era stato invece giudice conciliatore, ed anch’egli aveva proseguito l’impegno agricolo. Ezechiele aveva avuto cinque figli maschi e due femmine: e tutti i ragazzi erano diventati, come d’uso nelle famiglie di quel tempo, agricoltori. Inizialmente condussero la cascina Santa Maria sul Po, quindi si spostarono alle Punte Alte, ed infine si trasferirono nel Piacentino, a Caorso. I cinque fratelli rimasero sempre molto uniti, anche quando inevitabilmente finirono per separarsi, ma solo negli affari: uno rimase a Caorso, avendo sposato una ragazza del luogo, mentre gli altri tornarono nel Lodigiano.

ANGELO RANCATI, uno dei fratelli, nel 1925 acquistò la cascina Bruzzelle, a Caselle Landi. Era un uomo forte ed atletico, che aveva condotto la propria vita con le ferree regole del podista: non sapendo andare in bicicletta, e disdegnando il birroccio, colmava enormi distanze camminando, e sempre a passo rapido. Morì a 76 anni, improvvisamente, colto da ictus, quando appariva scoppiare di salute. Angelo aveva sposato Teresa Losi, anch’ella di Caselle, figlia di piccoli coltivatori diretti.Dal matrimonio erano nati sette figli: Cesare, classe 1891, e Achille, del 1899, erano morti al fronte, durante la Grande Guerra; Ernesto, altro figlio, era stato l’unico a fare ritorno. Gli altri figli, forse a compensare la scomparsa dei due soldati morti giovani d’età, ebbero lunghissime vite, arrivando tutti ad oltrepassare i novant’anni. Fra questi vi era una religiosa, suor Cecilia, che arrivò sin quasi alle soglie del secolo: ella apparteneva all’Ordine di San Vincenzo, il cui Istituto era noto per le questue a favore dei poveri e dei bisognosi; queste monache, nel passato, indossavano un copricapo bianco, enorme, di forma rettangolare, che nascondeva non solo i capelli, ma persino il profilo del volto, insaccandolo dentro l’inusuale cappello.Suor Cecilia era un autentico personaggio: viveva con profonda sincerità per i poveri e pur essendosi trasferita a Torino da molti anni continuava ad amare la propria famiglia, così nei radi giorni di riposo che trascorreva nel Lodigiano non mancava occasione di fare prediche ai parenti affinchè si tenessero distanti dalle irrequietezze della vita mondana.

DELLE GIOVANI LEVE dei Rancati, chi proseguì l’impegno agricolo furono Ernesto e Luigi. Il primo era il “regiù”: aveva il senso degli affari e curava i mercati. A quel tempo l’azienda agricola era, con la presenza di cinque stalloni, caratterizzata dall’allevamento dei cavalli da tiro. Altri puledri, invece, venivano acquistati nel Cremonese: portati a diciotto mesi, erano venduti durante la prestigiosa fiera di Codogno, frequentata dagli agricoltori piemontesi, che qui giungevano a comprare i loro cavalli, adoperati nelle risaie.Quando i trattori soppiantarono l’utilizzo dei cavalli, Ernesto Rancati decise di cambiare rotta e persino paese, e nel 1954 si trasferì con la propria famiglia a Massalengo, conducendo una corte di 400 pertiche e optando per le vacche da latte. Ernesto Rancati aveva sposato Angela Contini, originaria di Caorso, da cui aveva avuto tre figli: Achille, Cesare, come gli zii morti in guerra, e Franco, testimone di questa storia.

FU PROPRIO LUI, nel 1969, a decidere di trasferirsi a Santo Stefano Lodigiano, alla cascina Abbazia, acquistandola dagli eredi Polenghi. Costruendo la stalla all’aperto, incrementò il numero di capi, portandoli a duecento, tra quelli in lattazione e le bovine d’allevamento. Il latte veniva conferito alla cooperativa Santangiolina, di cui i Rancati furono tra i primi sottoscrittori dell’atto costitutivo.Il signor Franco da giovane ebbe la possibilità di proseguire gli studi, ma i tempi erano difficili: c’era la seconda guerra mondiale e suo padre Ernesto temeva che alla fine, dovendo il suo ragazzo comunque badare all’azienda agricola, avrebbe fatto male sia come studente che come agricoltore, e così lo convinse a dedicarsi a tempo pieno all’agricoltura.Franco ha sposato Luisa Rocca di Caselle Landi, anch’ella figlia di agricoltori, e la cui dinastia diede al paese ben due sindaci: Paolo Rocca (primo cittadino dal 1914 al 1916) e Ilario Rocca (dal 1946 al 1951). Dal matrimonio sono nati tre figli: Rosangela, che ha scelto di fare la mamma a tempo pieno, Fausta, che è medico della mutua a Codogno, e Paolo, il quale dopo un periodo di permanenza in azienda, essendo laureato in Farmacia si è trasferito a svolgere la propria professione ad Albino.

IL SIGNOR FRANCO RANCATI ha dunque proseguito da solo, per tanti anni affiancato da un collaboratore, Ernesto di Maleo, uomo bravissimo, e mungitore affidabile e competente. La stalla è stata mantenuta sino al 2008. In tantissimi anni d’impegno agricolo, il signor Franco Rancati ha visto veramente il mondo rurale cambiare: ne è sempre rimasto attratto, fiero di appartenervi, e qualche delusione l’ha presa solo nell’annosa vicenda delle quote latte.Fuori dalla casa padronale, tre bellissime magnolie proiettano le loro ombre sull’aia: il primo sole estivo declina sui confini della pianura, e indora per un ultimo istante i vicini profili di Santo Stefano Lodigiano.

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