Resto in zona, mi sposto solo duecento metri più avanti: sempre a San Rocco al Porto, ancora alla cascina Arioli, ma alla porzione denominata II, mentre la terza non esiste più. Cammino attraverso una stradina di campagna che conduce agli angoli più suggestivi della Mortizza, poco prima del Po. Vi transitai la scorsa primavera; già allora la natura mi era apparsa impareggiabile: scoscesi pendii verdeggianti lambivano le acque della Mortizza, ma quella fauna pressocché tropicale appariva martoriata dai vecchi pilastri della linea ferrata per Piacenza, oltre che da quelli nuovi, avveniristici, dell’alta velocità dei treni in transito. Un obbrobrio. Uno scempio su questo incantevole paesaggio. Con la necessità alla fine di rendersi strabici: con un occhio lasciarsi catturare dal verde della campagna tropicale e dai suoi corsi d’acqua, con l’altro lasciarsi irridere dalla ferraglia del progresso. Proprio sulla stradina che sto percorrendo, vi transitò Giuseppe Garibaldi. In un campo qui vicino precipitò un aereo americano colpito dalla contraerea tedesca. E sempre su questo tratto il 29 aprile 1945 batterono in ritirata i militari germanici di stanza a Piacenza. Sempre su questa strada vi era un’osteria, di cui si conservano, sulla facciata di una casetta rurale, i mattoni dell’arco d’ingresso; l’unico particolare che si ricorda è il nome del locale: “La Paia”.
gli ultimi giorni
Alla cascina Arioli II, sono ospite del signor Franco Chiodaroli; e tireremmo tardi a raccontare tanti episodi del passato, cercando i punti in comune tra lui, diventato anziano a ridosso del Po, e me che sono ugualmente uomo di fiume, cresciuto nei pressi del Simeto, ed amante di un altro fiume, l’Amenano, che sfocia nel mare di Sicilia partendo da un punto segreto dell’Etna, e di cui nessuno malgrado millenni di ricerche è mai riuscito a scoprire dove sia la sua sorgente.
Peccato che il signor Franco abbia fretta. Sono infatti i suoi ultimi giorni da affittuario dopo che, dai tempi di suo padre, la famiglia Chiodaroli ha condotto per oltre ottant’anni la corte Arioli II.
Le radici si mettono se uno vi affonda le ragioni del cuore. Così il signor Franco ogni tanto ha il magone: in quei momenti stiamo zitti, senza dirci nulla.
A fine Ottocento, il capostipite Alberto Chiodaroli svolgeva la sua attività di piccolo coltivatore diretto: curava un appezzamento di terra; per diletto coltivava anche qualche vite; se l’annata era stata buona realizzava pure una piccola botte di vino.
muratori e boscaioli
I suoi figli maschi, Annibale, nato nel 1902, e Giuseppe, che era invece del 1909, avevano intrapreso un altro percorso: il terreno coltivato dal padre era infatti troppo piccolo perché se ne ricavasse un reddito per più nuclei di una stessa famiglia, e così i ragazzi avevano optato per l’edilizia divenendo muratori alle dipendenze di un capo mastro.
Sia Annibale che Giuseppe erano onesti lavoratori, molto apprezzati, ma incapparono ambedue in una paradossale situazione: era quello il periodo in cui il Fascismo obbligava a precisi comportamenti; lavorava soltanto chi aveva la tessera del partito. Annibale e Giuseppe erano di sinistra: non politicanti accesi, non ribelli, ma col sano principio che non amavano attaccare l’asino dove voleva il padrone. Il capo mastro, che stimava molto i ragazzi, cercava di persuaderli nel prendere la tessera, che non valeva la pena mischiare la politica col lavoro, ma i giovani Chiodaroli erano irremovibili. Tanto che, ad un certo punto, considerati dai gerarchi fascisti come soggetti facinorosi, fu impossibile per il capo mastro chiamarli ancora a lavoro. Restarono in casa.
A quel punto, Annibale e Giuseppe tornarono ad occuparsi di agricoltura. Ma, non volendo gravare sulle spalle del padre, si ingegnarono a fare i boscaioli. Prendevano in affitto appezzamenti ricchi d’alberi e lavoravano il legno: la maggior parte se ne andava per i pali dei vigneti delle vicine colline piacentine, e qualcosa come ceppi per ardere nei camini delle case. Per un po’ di anni svolsero questa attività, poi presero in affitto un appezzamento più grande e si diedero all’orticoltura: pomodori, patate, fagioli, bietole; quotidianamente andavano al mercato di Piacenza e vendevano i loro prodotti ai grossisti.
la svolta
L’anno 1951 rivelò una svolta importante per i fratelli: divennero affittuari della cascina Arioli II, di proprietà di una famiglia originaria di Guardamiglio. La possessione vantava 22 ettari di terra, e così i fratelli Chiodaroli smisero di fare i boscaioli e si dedicarono all’allevamento di bovini con attività rivolta alla produzione di carni. Al tempo stesso proseguirono con la coltivazione dei campi e con la passione che il padre aveva loro trasmessa: quella della cura, qui e lì, di qualche buona vite. I due fratelli erano molto uniti, e quando dovevano assumere decisioni, pur partendo talvolta da punti di vista diversi, tanto discutevano, sempre con serenità e pacatezza, sin quando non trovavano un punto d’incontro. Rimasero insieme sino al 1960.
Giuseppe, che era il più giovane dei due, aveva sposato Luigia Bensi di San Rocco al Porto, una donna molto attiva che, oltre a prendersi cura della famiglia, in estate aiutava il marito nei lavori dei campi. Nel 1946 nacque Franco Chiodaroli, ultimo di tre figli, il quale già da bambino rivelò le sue intenzioni: sarebbe divenuto agricoltore. A sei anni aveva ottenuto il suo primo incarico: con fascine di paglia doveva scacciare con immediatezza i tafani che si poggiavano sui buoi, portati sui campi per tirare l’aratro, perché altrimenti questi, punzecchiati, sarebbero corsi via, infastiditi dal dolore e dal prurito.
un fabbro mancato
Papà Giuseppe, però, per suo figlio desiderava un avvenire solido, e non era convinto che la campagna potesse garantirglielo. Così, quando il ragazzo aveva finito le classi elementari, gli aveva consigliato di provare un altro mestiere, e lo aveva mandato a fare il garzoncino dal fabbro del paese: Franco vi resistette una settimana, poi disse al padre che sempre chiuso in officina si sentiva soffocare, che la sua vita non poteva che svolgersi sui campi. Quelle implorazioni furono così evidenti sui reali sentimenti del ragazzo che il padre lo prese con sé, insegnandogli i segreti per divenire un bravo agricoltore. Papà Giuseppe gli insegnò, soprattutto, ad essere un uomo vero. Gli rivelò il valore dell’onestà, sopra ad ogni altra cosa. A fare nella vita con quello che si possedeva, senza mai tentare di procurarsi quel che non poteva aversi. Gli chiarì che imbrogliare il prossimo era una delle cose peggiori che potessero esserci. E che la parola data non poteva essere che una, ed era da rispettarsi a tutti i costi. Gli insegnò ad essere un uomo tutto d’un pezzo. Un uomo fiero. Lezioni che Franco Chiodaroli, ora che è anziano, e che vede scorrere davanti ai suoi occhi tutta la vita, ripassa con infinita nostalgia, e con magoni in gola che talvolta gli si sciolgono lungo il viso solcato di rughe e pensieri.
la passione per i vitigni
Anche Franco ha ereditato la passione per i vitigni. Ma alla tradizione ha aggiunto la novità; egli infatti mescola i vari tipi di uve coltivate: croatina (bonarda), malvasia, barbera, ortrugo, fruttano, qualità che lui miscela in modo indifferenziato. Quest’anno ha prodotto 26 damigiane con un vino avente circa il 12.20 di gradazione. Mi dice che la viticoltura è una passione, una sorta di malattia, perché essa d’altra parte non ha mai costituito per lui alcuna forma di guadagno. La passione nasce dal vedere crescere rigogliosi grappoli d’uva attraverso i quali immaginare il piacere di bere un autentico bicchiere di vino.
Franco Chiodaroli mi spiega che lui usa ancora i vecchi metodi di pigiatura: con i piedi calpesta i chicchi riposti all’interno di una bigoncia (la “navazza”). Lo scorso mese erano sette tra parenti ed amici a vendemmiare alla cascina Arioli II.
Come vuole la tradizione in casa Chiodaroli anche quest’anno, appena terminata la pigiatura, si è provveduto a fare la “burighina”, una specie di budino che si ottiene mischiando succo d’uva non fermentato con farina bianca; il preparato viene posto sul fuoco e fatto cuocere lentamente fino alla bollitura, avendo cura di rimestare continuamente perché non si formino grumi e non attacchi al fondo della pentola. Una volta fredda la “burighina” è una delizia. Nel passato c’era l’abitudine di conservarne un barattolo per il giorno di Natale: con un cucchiaio si toglieva lo strato di muffa che si era formato in superficie, e sotto il mosto, ispessito, era sempre una meraviglia.
La cura della vite è stata per Chiodaroli una ragione di vita. L’ha tenuto impegnato almeno otto mesi l’anno. I ritmi di lavoro sono intensi: la potatura avviene a febbraio e la raccolta a metà settembre, ma in questo lasso di tempo ogni otto, dieci giorni la vite va trattata col verderame, costituito da un gruppo di anticrittogramici, per evitare i parassiti. Oggi il prodotto può tranquillamente comperarsi nei negozi specializzati; una volta le scaglie di verderame si acquistavano al Consorzio Agrario; poi si riponevano all’interno di un sacco di iuta che veniva immerso nell’acqua affinché le placchette si sciogliessero; quindi si mescolava con la calce. Così era pronto il prodotto da aspergere sulle viti.
Chiodaroli mi mostra il suo vigneto, accarezza le foglie di ogni tralcio, mi porge un grappolo di succosa uva bianca.
un triste addio
Nel 2004 Franco Chiodaroli ha dovuto lasciare la casa padronale: i lavori sulla linea ferrata dell’alta velocità avevano reso le mura dell’abitazione crepate. Il sindaco del paese gli intimò l’ordine di sgombero. All’epoca il papà di Franco, Giuseppe, da tutti chiamato “Gino ad cìod”, era ancora vivo. Lontano dalla cascina s’ammalò, magari di malinconia, e non fu più lo stesso, anche a causa di un ictus, che gli aveva tolto l’autonomia e la parola. Mori a quasi cent’anni proprio il giorno dell’inaugurazione dell’Alta Velocità.
Adesso Franco Chiodaroli sta per lasciare la possessione, così ha deciso la proprietà, e non ci sono stati santi che hanno intercesso. Se ne va “dai suoi campi e dalla sua terra”, l’ultimo dei Chodaroli, che ebbe nella propria dinastia muratori, boscaioli, agricoltori, viticoltori, e uomini fieri, tutti d’un pezzo.
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