L’antro delle meraviglie della Cantone

I Bolzoni a Santo Stefano Lodigiano sono come le querce secolari

Resto meravigliato ad osservare gl’interni della cascina Cantone, a Santo Stefano Lodigiano, la cui proprietà è della famiglia Bolzoni. In verità, questa corte mi ha sempre colpito, ogni volta che, scendendo nella Bassa, mi è capitato di transitarvi: perché su un profilo laterale ed esterno ha un recinto dove sono conservati ed esposti molti attrezzi della civiltà contadina, mentre sulla facciata di un edificio ha un bellissimo dipinto, che ritrae alcune bovine al pascolo, opera del pittore Giuseppe Ravizzini, che negli anni passati ebbe riconoscimenti non solo nel Lodigiano e subì qualche critica per il suo carattere sin troppo umile, che lo limitò probabilmente nelle personali affermazioni.

Un orgoglioso ambulante

La casa padronale della cascina Cantone è poi un vero antro delle meraviglie: ogni stanza è una sorpresa, arredata con grazia e stile, e talvolta con un’eccentricità originalissima, dalla signora Clementina Meda, moglie di Mario Bolzoni.

I Bolzoni a Santo Stefano Lodigiano sono come le querce secolari: impossibile dire da quando vi abbiano messo radici. Forse da sempre. Il ceppo originario, però, non deriva dall’ambiente agricolo. Il primo Bolzoni di cui si conserva memoria, che si chiamava Luigi, faceva l’ambulante. Egli morì giovane e dopo di lui se ne andò anche la moglie, e dei loro quattro figli, tutti ancora piccoli d’età, si curò uno zio, fratello del padre. Anch’egli era ambulante ed anche i ragazzini, crescendo, scelsero questo mestiere.

Il padre del nostro Mario Bolzoni, testimone di questa storia, si chiamava Giuliano. La sua figura mi ha colpito moltissimo ed ha pure commosso l’amico Giacomo Rossi, propiziatore dell’incontro con i Bolzoni.

Nato nel 1886, Giuliano Bolzoni era un ambulante fiero del proprio lavoro: perchè quel mestiere gli aveva dato la possibilità di campare, molto dignitosamente, e di avere la stima ed il rispetto della gente. Era stato, tuttavia, costretto ad interromperlo per sette anni: aveva fatto un triennio di leva in Sicilia, e quando finalmente era tornato a casa, era stato arruolato per la guerra di Libia, scoppiata nel settembre 1911; da qui era partito, e questa volta senza transitare neppure da casa, per il primo conflitto bellico. Durante la guerra s’era ammalato gravemente e gli infermieri del corpo sanitario lo avevano dato per morto. Si salvò, per fortuna. Bevendo intere bottiglie di liquore, diceva lui. Ma, più verosimilmente, era stato il destino a risparmiargli la vita.

Quando rientrò dal fronte, aveva 32 anni ed una gran voglia di rimettersi a pari con tutte le occasioni che la vita, causa le guerre, gli aveva tolto. Le sue abitudini di lavoro erano molto costanti, e cercò di mantenerle sino all’ultimo dei suoi giorni, anche quando la fatica di una vita sempre in giro sul carretto cominciò a farsi sentire. Giuliano partiva al mattino presto e rincasava la sera alle ventidue; girava per cascine, si procurava i beni da rivendere: una volta la settima incontrava un grossista ed avviava con lui la vendita della maggior parte delle cose che aveva preso durante i suoi giri, altrimenti andava al mercato di Codogno o in altri paesi limitrofi. Essendo analfabeta, segnava gli affari conclusi su un asse di legno del proprio carretto: alla sera, la moglie, Maria Assunta Fasoli, decifrava quei simboli assai uguali a disegni cinesi, e non c’era volta che agli affari conclusi non corrispondesse la giusta cifra, corretta alla lira.

Il fiuto per gli affari

Anche se analfabeta, Giuliano Bolzoni possedeva un fiuto straordinario per gli affari. Questo però non lo rendeva cinico; anzi, era un uomo molto buono: ai figli raccomandava sempre di essere caritatevoli, capaci di donare al prossimo senza minimamente pensare di ottenere qualcosa in cambio; ma gli affari - spiegava loro -, quelli vanno trattati in maniera diversa: perché un accordo sbagliato, una stretta di mano precipitosa con un altro commerciante, avrebbero potuto avere consegue nefaste per il proprio portafoglio.

Lui stesso aveva tratto beneficio dal pregiudizio che, in un’occasione, aveva ingiustamente subito. Giuliano Bolzoni era di orientamento socialista: non per passione politica, ma perché riteneva umanamente giusta la causa. Ma, nel periodo in cui si mise a commerciare i bachi da seta, e pensava di poterli rivendere alla Filanda di Santo Stefano Lodigiano, trovò le porte della fabbrica sbarrate: uno di sinistra lì non era gradito. Gli toccò fare affari con il più distante paese di Maleo. Quella che si rivelava come un’antipatica ritorsione fu al contrario la sua fortuna: a Santo Stefano Lodigiano la filanda ben presto fallì, mentre a Maleo proseguì per anni la su attività.

I Bolzoni gestivano pure l’Osteria della Salute, all’ingresso del paese. In realtà, visto che Giuliano era sempre in giro, al locale pensavano la moglie e la figlia Giuseppina. L’osteria era un luogo di ritrovo: vi si beveva, e vi si giocava a carte.

Sia Giuliano che la moglie erano molto parsimoniosi e nel 1926 riuscirono ad acquistare una piccola cascinetta, denominata Cinta. Giuliano Bolzoni morì che aveva settant’anni appena compiuti, mentre la signora Maria Assunta arrivò a compiere 100 anni.

Di padre in figlio

Anche il figlio Mario prese a fare l’ambulante. Egli è nato nel 1931. A differenza del padre, aveva potuto studiare e frequentato le classi elementari. A quei tempi la sua maestra era stata la signora Meazzini, che era di Santo Stefano Lodigiano, poi il suo posto fu preso dalla signora Scrivani, che veniva invece da Piacenza, aveva un piglio severissimo e incuteva una forte soggezione agli scolari. Mario s’era iscritto anche alle classi medie, ma si era sotto la guerra, i disagi erano molti, e i genitori preferirono tenerlo in casa. Cominciò quindi ad aiutare il padre nei viaggi, sino al 1948. Quindi preferì dedicarsi all’attività agricola: prese altra terra, limitrofa alla cascina Cinta e, insieme al fratello Angelo, coltivò i campi. I fratelli Bolzoni presero anche quattordici vacche e cominciarono a curare la stalla. Il latte veniva conferito al caseificio della vicina cascina San Fedele, di proprietà del signor Belloni. Successivamente, e sino agli inizi degli anni Novanta, cioè sin quando fu mantenuta la stalla, alla ditta Galbani.

Mario Bolzoni, però, inizialmente, diede anche una mano in osteria: era infatti necessario andare a prendere l’uva nel Piacentino. Lui partiva col carretto nel primo pomeriggio e ritornava all’indomani. La strada era impervia e il percorso molto lento: con cavallo e carretto era un miracolo riuscire a percorrere 4 km all’ora. Mario dormiva nelle stazioni di posta, ce n‘erano tante nel Piacentino, da Borgonovo a San Nicolo. Erano queste modeste trattorie, dove il mangiare era certo, pur se alla buona, e il dormire dipendeva dalla qualità dei servizi offerti: spesso si finiva con l’accomodarsi nella stalla insieme al proprio cavallo. Ma le stazioni di posta più dignitose offrivano più soluzioni: c’era la stalla dove far riposare le bestie, un cortile interno dove depositare il carretto con le proprie granaglie, un locale dove desinare, e un letto su cui ristorarsi.

un’occasione da cogliere

Nel 1957 si presentò una grande opportunità: i proprietari della cascina Cantone, i Bernardelli, avevano deciso di mettere in vendita questa loro corte, e Mario e Angelo Bolzoni colsero a volo l’occasione; originariamente questa possessione era proprietà di un piacentino, Francesco Bernardelli, che avendo sposato una donna di Santo Stefano Lodigiano, aveva scelto di vivere in questo paese.

I fratelli Bolzoni ampliarono il numero delle bovine da latte e acquisirono altra terra da lavorare. Nelle attività di stalla furono aiutati da un mungitore, che si chiamava Carlo Corradi. Poi nel 1954 Mario conobbe Clementina Meda, di Caselle Landi, che aveva un piccolo negozio di alimentari nel cuore del proprio paese: Mario passava frequentemente da quelle parti per andare a macinare il mais in un mulino nei pressi, e, adocchiata la fanciulla, mostrò di essere vorace di panini; ogni due ore entrava per farsene imbottire uno, sin quando, preso coraggio, le dichiarò il suo amore.

La signora Clementina fu la fortuna della cascina Cantone: affidata ai fratelli Bolzoni, due scapoli interessati solo al lavoro che non alle faccende domestiche, la corte cominciava ad essere l’abitazione preferita dai topi, che dalle cantine cominciavano ad appropriarsi dei piani superiori. La signora Clementina impose le proprie regole: in stalla e sui campi, i fratelli Bolzoni potevano muoversi come meglio desideravano, ma alla casa avrebbe provveduto soltanto lei, e in breve tempo seppe trasformarla sino a renderla una vera reggia.

Nel 1968 a Mario Bolzoni venne l’idea di tornare a fare il commerciante; allora si congedò dal fratello: Angelo rimase da solo alla guida della cascina Cantone, mentre lui si spostò nel Piacentino, dove aveva scelto di vivere. L’indole del commerciante non lo aveva mai abbandonato, eppure non erano trascorse che poche settimane quando cominciò ad avere una fortissima nostalgia dei campi, della stalla e, soprattutto, del suo Lodigiano. In Emilia rimase per tre anni, poi le circostanze della vita lo riportarono a Santo Stefano Lodigiano: suo fratello Angelo, infatti, morì; era rimasto scapolo tutta la vita e non aveva eredi: fu così Mario a riprendere a condurre l’azienda agricola e a riallacciare il filo della propria esistenza con il percorso agricolo. E così è ancora oggi.

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