Il fascino segreto della corte dei “curdè”

Vi sono luoghi che più di altri rivelano il misterioso fascino della campagna lodigiana. Perché sono incantevoli ed il loro segreto è quello di avere trattenuto l’afflato di ogni tempo, come quando si apre uno scrigno rimasto chiuso per secoli e tutto ciò che vi era stato conservato riluce, improvvisamente, di sfolgorante bellezza. Così, alla cascina Bosco Boneschi di Castelnuovo Bocca d’Adda, mi vengono in mente alcuni bellissimi versi di una poesia del compianto ed indimenticato professore Gino Commissari, scrittore e biblista, che fu docente, prete, e infine laico eremita per studi e vocazione: «Le cascine della mia terra, grandi, e pure se piccoline, sempre valorose, tuffate nel verde campagnolo...Ruvide e candide. Rossa fiammata i tetti. Le tegole palpebre per meditare. Morbide fumate, variate in mille aspetti dai sornioni comignoli per fare le fuse tra cielo e prati. Limpide arpe di fossati, cantare di fontane chiare...» (Serenata alle cascine, tratta da Il silenzio nell’erba - ricordo di Gino Commissari - edito dal gruppo culturale “Il Corallo”).

il milite

romualdo

Sono ospite della famiglia Magnani, che tutti da queste parti conoscono da sempre come i “curdé”, probabilmente per via di qualche antenato che di mestiere lavorava la corda: ho chiesto un’ora di disponibilità e ora mi sento in colpa, perché il tempo trascorre ed io sto così amando questo luogo da pensare di mettervi tenda, chiamare i miei di casa Lombardo a raccolta, farmi raggiungere qui nella Bassa più remota e godere insieme, famigliari e nuovi amici, di un tramonto che, per luci e colori, si preannuncia suggestivo e speciale.

Ai Magnani sono arrivato tramite la signora Adele, che a Castelnuovo Bocca d’Adda è come il fondamentale perno di un orologio a pendolo: ne conosce le corde più intime, i rintocchi più autentici. Ed ora mi sto lasciando incantare da una testimonianza famigliare che ha attraversato già tre secoli di ricordi.

E penso quasi con commozione alla figura di Romualdo Angelo Magnani, classe 1900, che era stato arruolato appena diciottenne per il primo conflitto mondiale e, una volta tornato prima dal fronte e poi dalla ferma militare, andava fiero del suo congedo perché vi stava scritto, nero su bianco, quanto testé riportato: «Durante il tempo passato sotto le armi ha tenuto buona condotta ed ha servito la Patria con fedeltà ed onore».

Romualdo ne era orgoglioso, e ciò gli alleviava le sofferenze fisiche che la guerra gli aveva impresso nel corpo: soffriva infatti di una tremenda forma di artrite reumatoide, che lo costringeva a trascorrere interminabili giornate tra letto e poltrona. Era una vera disdetta perché dall’anno prima i Magnani avevano lasciato l’affittanza della cascina Palazzo di Caselle Landi per trasferirsi alla cascina Bosco Boneschi e vi erano mille incombenze a cui pensare. Così suo padre Giuseppe, per dargli il tempo di rimettersi, s’era rimesso a lavorare duramente; e anche il fratello di Romualdo, Giovanni, gli raccomandava di prendersela comoda, di pensare a guarire, che nell’attesa del suo ritorno lui avrebbe lavorato per due, e alla fine ogni cosa sarebbe tornata a suo posto. Ma, quando si nascondevano agli occhi di Romualdo, tutti quanti versavano lacrime amare: il padre Giuseppe che assisteva quotidianamente all’affievolirsi delle forze del suo giovane figlio; il fratello Giovanni, che non aveva mai creduto alle possibilità di guarigione; e la moglie di Romualdo, Annetta Tosi di Caselle Landi, che pregava sempre il buon Dio nella speranza di una guarigione del congiunto, ma s’era rassegnata al peggio già da tempo.

quattro giovani orfani

Infatti, nel 1933 Romualdo spirò. Egli lasciava quattro giovanissimi orfani: Giordano, Bruna, Franco, Bruno. Mamma Annetta, che alle avversità aveva reagito mantenendo un carattere mite e solare, li seguì con forza e con tenacia, ma un ruolo fondamentale, nella crescita dei ragazzi, ebbero pure lo zio Giovanni e sua moglie Severina Ardemani. Questa coppia non aveva avuto una prole diretta e crebbe i nipoti come se si trattasse di figli propri, e proprio come avrebbero fatto due normalissimi genitori: ora con straordinario affetto, ora con fermezza e severità.

Giovanni Magnani era un uomo tutto d’un pezzo: alto, con i baffoni e uno sguardo fermissimo, che non conosceva titubanze di sorta; e lo stesso la zia Severina, che dal nome sembrava avere forgiato anche il proprio carattere: sulle regole, non transigeva. Era una donna lavoratrice e concreta, che si concedeva soltanto un’unica distrazione: in compagna della cognata Annetta, ogni giorno si recava a messa, percorrendo a piedi i due chilometri che distavano dalla chiesa del paese, qualunque tempo vi fosse, anche durante nevicate così intense che avrebbero dissuaso qualunque altro fedele dal partecipare alle funzioni religiose.

Nei primi anni, alla cascina Bosco Boneschi i Magnani furono gli affittuari di un’ufficiale dell’esercito, che si chiamava Brusoni. Successivamente acquistarono la possessione. L’azienda agricola vantava da un lato una stalla di bovine per la produzione di carni, e dall’altro esibiva un superbo ed eterogeneo frutteto, con distese di piante di gelsi e un esteso vigneto. Vi era anche una vacca lattifera ma esclusivamente per il consumo famigliare del latte.

un destino malevolo

Zio Severino crebbe i maschi di casa Magnani agricoltori a regola d’arte, ma ciò non fu sufficiente ad allontanare il destino malevolo da questa bella famiglia.

Giordano, che era nato nel 1926, si trovava a lavorare sui campi: una distrazione gli fu fatale; si piegò verso la terra, a raccogliere o a sistemare chissà cosa, proprio mentre un cavallo si mise a scalciare; gli arrivò una zoccolata in piena fronte: il ragazzo, appena quattordicenne, entrò in coma, e rimase tra la vita e la morte per cinque giorni: non vi furono preghiere e suppliche che valessero a salvarlo. La cosa strana fu che persino l’animale pareva rendersi conto del disastro che aveva provocato: dal momento dell’incidente si rese ingovernabile, sembrava come impazzito, e i Magnani dovettero venderlo in quanto non riuscivano più a condurlo sui campi.

Toccò agli altri ragazzi proseguire l’impegno agricolo: Franco, classe ‘29, e Bruno, classe ‘31, mentre la sorella Bruna sposò Giovanni Lucchini, un agricoltore di Castelnuovo Bocca d’Adda.

I due fratelli rimasero a condurre l’azienda agricola per tantissimi anni insieme, a lungo coadiuvati dallo zio Giovanni, che per quanto anziano manteneva le caratteristiche del “regiù”, sempre pronto ad intervenire, consigliare, suggerire e, talune volte, rimbrottare. Poi Bruno scelse un’attività in proprio come contoterzista e tuttora conduce un tocco di terra.

nozze movimentate

Franco Magnani, invece, rimase alla cascina Bosco Boneschi, di cui tutt’ora è una fondamentale risorsa: si lamenta della sordità, ma non disdegna, ad ottantatre anni, di salire sul trattore.

Egli nel 1954 aveva sposato Giannina Dossena di Meleti. Era quello per la Chiesa un anno mariano e il Papa Pio XII aveva inviato ai novelli sposi la propria benedizione apostolica. A celebrare le nozze si erano presentati due sacerdoti: l’allora parroco di Meleti e un sacerdote cappellano della Marina Militare, padre Pietro Veneroni, soprannominato “il Barbetta”, e zio alla lontana della giovane sposa.

Forse un prete non gradiva la presenza dell’altro, perché sull’altare cominciarono a pestarsi i piedi, e persino sul fatidico sì ebbero da discutere: perché il parroco sosteneva che quello dello sposo non si fosse sentito, e quindi il fievole consenso potesse essere motivo di annullamento delle nozze, mentre il missionario garantiva che quel sì c’era stato ed anche bello tonante. Tra i due preti, insomma, fu una discussione continua per l’intera celebrazione. Dopo le nozze, fatto un brindisi ed effuse un paio di sdolcinerie sull’amore eterno, Franco ricordò alla sua sposa che aveva un impegno e andò a concimare i campi per la semina del frumento. La signora Giannina capì immediatamente cosa significava avere sposato un agricoltore....

per tradizione

Dal matrimonio, nacquero Mariangelo e Gabriella. Quest’ultima aveva intrapreso un’attività distante dall’agricoltura, avviando un esercizio come parrucchiera; ma dopo il matrimonio con Ivano Facchini, bresciano della Val Trompia, commerciante di surgelati, ha scelto di dedicarsi alla gestione della casa e della famiglia: il figlio Jonathan lavora in un’azienda di Cremona specializzata sul movimento terra, e si sa che il passaggio da ruspe a trattori può essere lieve e forse nel futuro anche per questo ramo della famiglia Magnani Facchini potrebbe esservi un ritorno all’agricoltura.

Mariangelo, invece, è l’attuale quercia della cascina Bosco Boneschi; dal padre Franco ha appreso le lezioni dell’umiltà e del rispetto degli altri. Oltre ad un forte sentimento della fede, che in questa famiglia è sempre stato pregnante. Ma anche gli aspetti pratici hanno tutt’oggi un forte rilievo: per potare una pianta, ad esempio, Mariangelo, che a 56 anni è un uomo maturo e sapiente, chiede ancora consigli al padre.

Mariangelo è anche guardiacaccia volontario: verifica e controlla che l’habitat faunistico mantenga la propria integrità, sul taschino del giaccone tiene il block notes per comminare le sanzioni amministrative, ma la gente di questa zona conosce bene le regole della caccia.

L’azienda agricola di Mariangelo Magnani ha mantenuto, per fortuna del territorio, una vocazione tradizionale: si fa monocoltura di frumento, mais ed erba medica. Quest’ultima, una volta secca, viene venduta direttamente agli agricoltori della zona. Il frumento è destinato alla panificazione. Il mais è però il bene che conosce meno degli altri la crisi dei prezzi, in quanto anche utilizzato, sul mercato, per la produzione di energie alternative.

È una scelta attuale, cui molti agricoltori ormai ricorrono gestendo direttamente gli impianti di produzione energetica. Ma Mariangelo che ama la natura e la campagna, è uno della vecchia guardia e pensa che non vi abdicherà: lui è rimasto fermo al senso di una storia antica, quando la nonna Annetta e la zia Severina chiamavano tutti quelli della cascina a raccolta, per la recita vespertina del Rosario. Poi, a fine preghiere, nonna Annetta osservava il cielo e annunciava che clima si avrebbe avuto l’indomani. E mai una volta che non vedesse giusto.

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