Le passioni febbrili di un lodigiano vero

Il lodigiano Vittorio Maggi è un uomo attraversato da passioni febbrili, che lo hanno sempre caricato a molle, dandogli ardori ed entusiasmi che oggi, alla soglia degli 82 anni, non affievoliscono minimante. Amore per l’arte, per lo sport, per la natura selvaggia, e per la sua città, Lodi: «Noi Maggi siamo con le radici ben piazzate dentro Lodi. Mio padre Arturo era del 1891. Aveva evitato la Prima guerra mondiale perché era ferroviere e dunque svolgeva un servizio essenziale per lo Stato. Dalle Ferrovie era stato assunto nel 1910; aveva cominciato come guardia sala, controllava che nelle aree riservate sostasse solo chi fosse munito di biglietto; aveva svolto il servizio in più località del Lodigiano: a Lodi era arrivato come capostazione».

Parla con un certo orgoglio di suo padre...

«Vero. Con noi figli aveva un rapporto particolare. Era una persona presente, come deve essere un genitore, e come sapevano fare gli uomini dei suoi tempi: uno sguardo era sufficiente per farci rigare dritti».

Un uomo severo, dunque?

«Sì, ma nella giusta misura. Papà era anche un grande sportivo: a Lodi aveva fondato una società di podismo. Lui era affascinato da questa disciplina. Aveva una camminata da podista anche quando passeggiava: sempre veloce».

E la mamma invece?

«Si chiamava Maria Antonia Papetti, proveniente da una famiglia di agricoltori, quelli della cascina Torre dei Dardanoni di Lodi Vecchio, anche se lei era nata a Cà dei Bolli nel 1904. La mamma era un donnone energico, se doveva dare un ceffone non si tirava indietro».

Insomma tra un padre che inceneriva con lo sguardo ed una mamma severa, lei sarà stato un bambino modello...

«Mica troppo! Ricordo che feci le elementari al Castello e poi in corso Archinti; ma alle medie, all’epoca Scuole di avviamento commerciale, cominciarono i problemi: mi rivelai allergico ai libri. Il primo anno fui rimandato a settembre con cinque esami sul groppone; al secondo anno, ne presi tre; al terzo fui promosso al primo colpo. Ma la voglia di studiare non l’ebbi mai».

Come mai?

«Guardi, io sono del 1934. La fine della guerra segnò una svolta fondamentale, anche per quelli che come me erano ragazzini: per me fu un senso di libertà assoluta. Avevo solo voglia di nuotare sull’Adda, di tuffarmi nelle rogge e di fare a pallate di neve. Per fortuna c’era anche l’oratorio, fondamentale ai quei tempi per avere un equilibrio».

Qual era il suo?

«L’oratorio San Lorenzo, che allora si chiamava San Colombano. Vi trovai figure fondamentali, di grande spessore. In questo senso, il Novecento è stato un secolo di maestri e di educatori».

Allude a monsignor Felisi?

«Anche, quantunque lui mettesse noi giovani un po’ in soggezione. Era infatti un uomo distaccato, con un occhietto semichiuso, così che sembrava volesse sempre scrutarti. Uomo coltissimo, poteva diventare vescovo, ma pare che il duce in persona si fosse intromesso per boicottare la sua nomina, avendo colto in lui sentimenti antifascisti».

E, allora, chi erano queste altre figure così importanti?

«Le cito due sacerdoti: don Francesco Brambilla, che poi andò a fare il parroco a Roncadelle; e sopratutto don Giovanni Borsa, originario di San Rocco al Porto, un prete che per la gioventù si faceva in quattro. Nel nostro gruppo, poco più grandi, c’erano dei ragazzi che si sarebbero portati avanti nella società e a cui guardavamo con ammirazione: Enrico Lodigiani, che divenne un luminare nel campo medico, Piero Molinari, Natale Riatti e Age Bassi, che era un uomo di un’affabilità unica».

Tutti pezzi grossi...

«Indubbiamente. Ma noi ragazzi avevamo anche un idolo sportivo: Ovidio Boggi, detto Cem, che partendo dalla sportiva del nostro oratorio era arrivato ad indossare la maglia del Milan».

L’età della spensieratezza sin quando durò?

«Ho cominciato a lavorare che stavo per compiere 15 anni. Il mio primo impiego fu presso la Drogheria dei fratelli Maiocchi, in via Incoronata a Lodi, esercizio poi rilevato da Angelo Ferrari, quello che fondò il bar Nazionale. Poi nel 1956 andai militare: i primi sei mesi alla scuola A.U.C. di Spoleto, quindi a Spilimbergo, in Friuli, sino a fine ferma. Il ricordo di quella meravigliosa terra e della sua gente riempie ancora oggi il mio cuore di profondissima commozione».

Un periodo intenso, mi pare di capire...

«Una fase straordinaria della mia vita. Avevo un comandante, Giorgio Chierico, triestino, reduce dal fronte russo, persona unica. Ma era la gente del posto ad essere semplicemente speciale; i friulani sembrano persone chiuse, arcigne, invece sono altruiste, affabili, e soprattutto autentiche».

Quando finì la leva, tornò a Lodi?

«Sì, e la mia preoccupazione principale fu quella di trovare una nuova occupazione. Fui fortunato. Andai a lavorare per il Colorificio Biancardi, fondato da Mario e Giuseppe Biancardi. Fu Egidio, il figlio di Mario, con cui sono sempre stato amico, a propormi di entrare in azienda. Vi rimasi per 35 anni».

Ha lavorato nello storico negozio di corso Umberto, a Lodi?

«Anche. Sono stato pure nel punto vendita di Melegnano, e per oltre vent’anni in quello di Casalpusterlengo».

La sua passione per l’arte nasce dalla frequentazione degli artisti che frequentavano il Colorificio?

«Indubbiamente. Ho visto passare tutti i più grandi pittori lodigiani del Novecento e con alcuni di loro sono stato amico».

Ad esempio?

«Natale Vecchietti: un tipo chiuso, taciturno, di indole triste, ma con il quale intrattenevo una costante relazione, andandolo spesso a trovare».

Lodi ha espresso una fucina di artisti: come se lo spiega?

«Una coincidenza. Ma credo, sotto sotto, che abbiano contribuito le suggestive atmosfere dei nostri paesaggi, un tempo unici».

Chi è stato a suo avviso il pittore più bravo?

«Penso Attilio Maiocchi, personaggio anche particolare: gioviale, estroverso, di buona tavola. Ma molto bravo era anche Gaetano Bonelli. Dei tempi di Melegnano, invece, ricordo gli estri di Annibale Follini».

All’attività lavorativa, ha affiancato una passione sportiva di rilievo...

«Sì, nella disciplina del tiro a segno: ho cominciato a sparare con la carabina con bersaglio a cinquanta metri di distanza. Sono stato campione sezionale del Lodigiano a pistola libera».

Mi scusi, assolutamente non per polemica, ma quali sono le principali caratteristiche per definire disciplina sportiva l’uso di un’arma?

«La concentrazione e la lotta con il bersaglio, il cui centro, già di per sé piccolo, diventa microscopico al momento del tiro».

Ha assunto anche incarichi nella sezione locale, giusto?

«Per qualche anno ho fatto il presidente; è stato un periodo impegnativo, ma ebbi la fortuna di avere come segretario Luigi Granata, noto per essere stato uno dei maggiori ristoratori del territorio, e che come amministrativo era di una precisione quasi maniacale. Durante la mia presidenza il poligono, causa alluvioni ed esondazioni dell’Adda, andò due volte sott’acqua. Ma quando viene offerto un incarico non è giusto sottrarsi, le pare?»

Chi glielo aveva proposto?

«Era stato Arnaldo Fraschini a coinvolgermi, ne avrà sentito parlare...»

Uno dei fratelli Fraschini, sportivi d’eccellenza e di razza?

«Esattamente, Riccardo portò le ginnaste fanfulline a livelli importanti; poi c’era Bruno che fu un eccellente ginnasta, campione lombardo di attrezzistica; Giordano, anch’egli campione nell’esercizio ad anelli e che fece il professore di educazione fisica al collegio San Francesco; e infine Arnaldo, che era subentrato a Giampiero Poggio, alla guida della sezione locale lodigiana del Tiro a Segno».

Qualcuno mi ha detto che lei è stato anche un navigatore solitario di fiume, conferma o smentisce?

«Confermo. Nel tempo libero ho costruito una barca e un anno sono arrivato sino a Venezia. Un’altra volta, invece, raggiunsi Porto Tolle, alla foce del Po, zona Polesine. Una volta arrivai sino in Jugoslavia, salpando da una località vicina a Venezia; in alcune avventure mi fu compagno di viaggio mio cognato, Gino Scarioni».

Come mai questa passione per la navigazione?

«Più che altro per il fiume. Lo vedo come un’arteria che porta sangue, linfa, vita. A torto alla gente che ama il fiume si attribuisce una generica immagine di solitudine. A me invece ha sempre dato una sensazione di libertà. Non a caso da ragazzo mi chiamavano “l’anadot”, l’anatra»

Tra il suo Novecento ed i suoi giorni attuali, vede differenze?

«Tante, purtroppo, Le cose giuste non ci sono più. Basti guardare al dilagare della corruzione: una vergogna! Ho assistito ad un progressivo deterioramento dei costumi e dei valori. Prima si viveva con meno, e c’era maggiore dignità».

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