Miriam Mafai, una vita e oltre

«Sono nata sotto il segno felice del disordine. Ho appreso tardi (avevo ormai più vent’anni) che non mi chiamo Miriam, come fino ad allora e dopo di allora mi sono sempe chiamata, ma Maria». È l’incipit di una vita, quella della giornalista, scrittrice e politica fiorentina Miriam Mafai, che avrebbe conosciuto molti colpi di scena, in decenni tormentati della storia europea: le persecuzioni razziali, la guerra mondiale, la Resistenza, la parabola grandiosa e tragica del comunismo fino allo sgretolarsi di quella potente illusione. Al momento della morte, Mafai stava lavorando alla sua autobiografia. «Il titolo di questo libro - racconta la figlia Sara Scalia nella prefazione - sarebbe piaciuto molto a mia madre. Era stata lei stessa a suggerirlo, senza volerlo, all’editore quando in una conversazione le sfuggì, parlando di sé una battuta: «una vità? Forse quasi due...».Un libro che si interrompe a metà. Mafai era riu

scita a completare la parte che arriva all’anno-spartiacque 1956. Vediamo così scorrere come in un film, le peripezie di una famiglia fuori da ogni regola, gli anni terribili della guerra e dell’occupazione nazista, l’appassionata militanza politica nel dopoguerra, gli eventi del 1956, con le rivelazioni del XX Congresso del Pcus e l’invasione dell’Ungheria: l’intenso racconto di un Novecento pubblico e privato. A curare quest’edizione la figlia Sara. Miriam era nata in una famiglia di artisti: pittore il padre, Mario Mafai, pittrice e scultrice la madre, Antonietta Raphael, ebrea fuggita dai pogrom della Lituania e giunta in Italia dall’Inghilterra. Visse gli anni terribili dei bombardamenti a Genova e dell’occupazione nazista a Roma, durante la quale assieme alla sorella distribuiva clandestinamente «l’Unità». Nel dopoguerra la passione fortissima - prima civile e solo in un secondo tempo politica - che ispirò molti della sua generazione la portò a proseguire la militanza come funzionaria del Pci in Abruzzo e assessore comunale a Pescara. Poi gli eventi del 1956, le rivelazioni del XX Congresso del Pcus, il dramma dell’invasione dell’Ungheria e il suo trasferimento a Parigi, per cominciare una nuova pagina della sua esistenza. Purtroppo, questo appassionante racconto di una donna e di un secolo si interrompe qui. L’ultimo capitolo, Noi due scomunicati è dedicato all’amore della sua vita, Giancarlo Pajetta, il partigiano “Nullo”, uno fra i più importanti esponenti del Partito comunista italiano, morto nel 1990. Un amore incontrato da giovane, ma poi vissuto come tale in età adulta. «Lui - scrive Mafai senza mai chiamarlo per nome - crede in dio (dove dio si può leggere il Partito, il Socialismo, la Rivoluzione, tutto naturalmente con la maiuscola). Io no. Lui è irascibile, rissoso, polemico. Io sono molto indulgente e conciliante. Lui pensa di dover salvare gli uomini e quindi ha fiducia nelle parole e nell’esempio.(...) non abbiamo hobby. Guardiamo poco la televisione ma andiamo spesso al cinema. Abbiamo molti amici (non solo comunisti). Come tutte le persone anziane abbiamo il gusto di ricordare il passato, ma non abbiamo il vizio di deplorare il presente».L’autobiografia che per anni Miriam Mafai si era rifiutata di scrivere, e a cui aveva messo mano solo negli ultimi tempi, con impegno crescente e incalzata dalla malattia, non sarà mai terminata. La morte le ha impedito di narrarci la sua “seconda vita”, quella da giornalista. Ma Una vita, quasi due restituisce al lettore lo sguardo penetrante di una bambina, poi di una ragazza e infine di una donna non comune, ostinata e coraggiosa, sul dipanarsi della storia: il lascito più prezioso ed emozionante.

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MIRIAM MAFAI, Una vita, quasi due, Rizzoli editore, Milano 2012, pp. 265, 18 euro

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