Enzo Tortora e quell’Italia ingiusta

Il prossimo 18 maggio saranno passati 25 anni dalla morte, il prossimo 17 giugno trenta dall’arresto di Enzo Tortora. Il suo è stato un caso emblematico di malagiustizia e mala informazione: il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso, scrisse Giorgio Bocca all’epoca. Tortora, che di quella dignità calpestata finì per morire a soli 59 anni, è stato un mito della televisione italiana, caduto bruscamente e con le manette ai polsi. Dopo sette mesi di carcere duro e qualche purgatorio, vennero l’assoluzione con formula piena nel 1986 e il rientro in tv - il famoso Dove eravamo rimasti? del 22 febbraio 1987 - ma mai del tutto riabilitato veramente da un’opinione pubblica per anni divisa tra innocentisti e colpevolisti.

Daniele Biacchessi (caporedattore di Radio24) per l’editore Aliberti ha scritto Enzo Tortora. Dalla luce del successo al buio del labirinto con il dichiarato obiettivo di restituire al lettore la figura del giornalista, uomo innocente rimasto imbrigliato nelle pieghe di una giustizia ingiusta. Il libro è stato presentato a Roma il 7 febbraio scorso dal presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino, dal segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone e da Marco Pannella, che ha ricordato il collega che fu eletto eurodeputato.Il saggio lo vuole ricordare e vuole ricordare l’Italia di quegli anni: un’Italia che agisce d’impulso, che esalta e atterra i propri miti. Accanto alla storia di Tortora scorre così quella della società, e la cosa interessante del libro di Biacchessi è proprio questa: ricordarci quell’epoca e la specificità di Tortora, non un uomo qualunque, se pensiamo che nel 1969, per un’intervista scomoda contro la lottizzazione alla Rai, l’azienda lo licenziò in tronco. C’é dentro insomma non solo una biografia da riscoprire (Tortora ha fatto la prima Domenica sportiva, è stato il primo a far cantare i politici in tv (a Cipria), ha coniugato l’informazione e lo spettacolo, ha fatto di Portobello il programma più visto della tv italiana, ancora oggi), ma uno specchio dell’Italia: quella dei monopoli televisivi ad esempio. Poi c’è la vicenda giudiziaria, ricostruita con una dovizia di nomi, date e procedure, nella quale - come note altrettanto dolenti - spiccano gli articoli di giornale che lo avevano condannato senza appello. Due soli, Paolo Gambescia e Giuseppe Marrazzo, fecero scuse formali alla famiglia all’inizio dell’iter giudiziario. Altri, come Bocca e Enzo Biagi scrissero nei loro articoli la parola “innocente”, mentre da tanti altri arrivò quasi un linciaggio. E poi c’è Silvia, una delle figlie, cui Enzo Tortora scriveva: «Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia». Silvia, giornalista anche lei, ha vissuto tutta la tragica epopea paterna facendo poi il grande sforzo di sopravviverne in qualche modo. Giustamente della riabilitazione a tutti i livelli del padre ha fatto una sorta di missione, difendendolo con grande forza e non riuscendo a perdonare quella gogna mediatica. Pensa, Silvia Tortora, che del padre ci sarebbe bisogno di più memoria, non quella del recente sceneggiato di Ricky Tognazzi da lei avversato, avendo «ridotto in macchietta mio padre ed essendo stata omertosa sui nomi».

DANIELE BIACCHESSI, Enzo Tortora - Dalla luce del successo al buio del labirinto, Aliberti editore, Reggio Emilia 2013, pp. 160, 15 euro

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