La scuola come investimento

Una recente indagine del Censis sui giovani induce a un seria riflessione. Dalla ricerca condotta sul campo appare chiaro che i giovani italiani, contrariamente a quanto emerge da analoghe indagini condotte in altri paesi europei, non ritengono la nostra scuola una buona opportunità in fatto di investimento per il futuro. Se poi si volesse affiancare a questa ricerca un’altra condotta in internet i cui risultati sono stati resi noti dalla Gazzetta dello sport poco più di un mese fa, allora si viene a scoprire, con amarezza, che la gran parte dei giovani vive male tra i banchi di scuola al punto da considerare la nostra scuola un’esperienza limitata perché oramai non più rispondente alle attese che la società di oggi richiede. Una scuola, quindi, superata nel tempo, nei contenuti, nei metodi e, «dulcis in fundo», anche negli stessi insegnanti costretti, come sono, a stare in cattedra anche quando si ha tanta voglia di andare in pensione. Ora forse l’interpretazione dei dati genera sconforto in chi vive la scuola con una intensità professionale tale da non meritare una simile negativa attestazione, eppure qualcosa mi dice che questi dati portano dritto al cuore del problema: la scuola non è più considerata un’opportunità di crescita. Ma vediamo perché. Si sa, ad esempio, che mettersi in relazione con i giovani non è cosa facile. E quale luogo più della scuola può rappresentare questa difficoltà? C’è chi ci ha rimesso la vita a causa loro. Uno per tutti il nostro buon, caro Socrate che fu accusato, tra l’altro, anche di aver corrotto i giovani di Atene e per questo condannato a bere la cicuta. Oggi non si impone più a nessuno di bere la cicuta (meglio lasciar perdere questo infuso), tuttavia sarebbe opportuno chiedersi il perché di tanto distacco, il perché di questa grave insofferenza che i giovani nutrono verso la scuola. Potrebbero essere tanti gli interrogativi su cui impostare una riflessione, ma credo che valga la pena soffermarsi soprattutto sul chiederci: possiamo essere considerati noi adulti dei valori per i giovani sotto l’aspetto etico, comportamentale, professionale? Da noi adulti i ragazzi cercano e si aspettano attenzione, competenze, e speranza per il futuro. I nostri insegnamenti, i nostri comportamenti possono rivelarsi ottimali ai fini educativi e professionali, ma possono anche rappresentare un «veleno» che rivelerà, all’occasione, tutta la sua micidiale potenza lungo il percorso della vita. Personalmente ritengo importante che noi adulti dobbiamo distinguerci ai loro occhi per le nostre capacità di offrire «accessi» al mondo, al mercato, al lavoro e non «eccessi» che tendono a svuotare personalità e valori fino a fare dei nostri ragazzi anime amorfe, sempre a caccia di esperienze spinte per sfidare gli adulti, le istituzioni e chi le rappresenta e talvolta anche la vita. Ecco perché dobbiamo credere e investire sui giovani. Dare loro delle opportunità, aprire nuovi scenari che portino a valorizzare quelli che valgono, quelli che sanno trasmettere entusiasmo, quelli che sanno relazionarsi senza affidarsi a provocazioni, ma che al contrario, sappiano stimolare osservazioni, voglia di fare, in ultima analisi mostrare la voglia di lavorare per un mondo migliore. Ad essere attenti osservatori, si può affermare che la scuola è giunta alla vigilia di un sostanziale ricambio generazionale e questo potrebbe rappresentare un’occasione per ridare una forte ricarica motivazionale a un ambiente decisamente in crisi. Di contro non mancano nelle nostre aule giovani dalla forte personalità, desiderosi di entrare nel sistema produttivo con le proprie idee, con una propria capacità progettuale, ma desiderosi anche di misurarsi, di mettersi in gioco, di affrontare il domani. Guai a deluderli, a spegnere ogni entusiasmo, a spezzare ogni iniziativa, a mostrar loro un futuro di incertezze e di incognite fino a condurli in una dimensione dove la voglia vitale può solo implodere. Mettiamoci bene in testa che i ragazzi non sanno navigare a vista, al contrario è facile che se non opportunamente aiutati, finiscono tra gli scogli che la società di oggi nasconde dietro i nuovi insaziabili e malcelati desideri, offerti da una società in rapida trasformazione sociale e tecnologica, rendendoli però fragili ed emotivamente deboli. E così che si cade in una dimensione tossica, originata dagli stessi comportamenti, dove i desideri rimangono sempre insoddisfatti e i piaceri appaiono sempre negati.

Il giorno in cui la scuola smetterà di educare i ragazzi a progettare il futuro, a raggiungere un obiettivo, a investire correttamente le proprie energie, ebbene, quel giorno avrà smesso di assolvere al suo compito primario: trasformare i giovani in uomini e donne del domani. Una scuola così rischia di affidare il proprio cammino a processi casuali e provvisori che trovano in una professionalità abitudinaria il proprio modello culturale.

Non c’è nella realtà scolastica cosa peggiore di una lezione monotona e di un processo educativo svuotato nel suo stesso significato, dove l’”educere” che si radica nell’idea di movimento, di cammino, si pone, invece, come processo statico e immobile. Guai a privare i giovani della speranza di conoscere e abbracciare nuove opportunità, perché pagherebbero un prezzo salato, trovando nella noia l’unica risorsa se non l’unica risposta alla sete di conoscenza. E quando la noia prende il sopravvento, allora vuol dire che abbiamo affidato i nostri ragazzi a pie illusioni; vuol dire che non abbiamo saputo offrire ai ragazzi il sapore dell’esperienza come occasione attiva, come opportunità operosa e produttiva. Ecco perché la scuola deve insegnare a guardare avanti; deve rappresentare necessariamente un investimento se non vogliamo rendere fragile l‘opera educativa. Gli studi devono offrire ai giovani studenti delle vere opportunità per avere una visione più ampia della realtà e una convinzione più seria delle proprie capacità. In caso contrario potrei ricordare ciò che scrive Cartesio: «Alla fine degli studi mi trovai sperduto tra infiniti dubbi ed errori. Mi sembrava di aver studiato solo per scoprire quanto fossi ignorante». No c’è che dire. Siamo di fronte a un altro Socrate.

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