Si chiama Blue Whale ed è un gioco macabro che pare stia spopolando tra gli adolescenti in rete. Negli ultimi sei mesi ha portato al suicidio 130 giovani, prevalentemente in Russia. Il gioco dura 50 giorni, nel corso dei quali i partecipanti sono chiamati a sostenere delle “prove” estreme: guardare film dell’orrore nonstop, disegnarsi sul corpo con una lama una balenottera azzurra (la “blue whale”, appunto), svegliarsi alle 4.20 del mattino. Fino alla prova più assurda: lanciarsi nel vuoto dall’edificio più alto della città. Prima di morire, le vittime hanno lasciato messaggi che ricalcano quasi il linguaggio dei giochi: “The end”, “game over”.
Il fenomeno è preoccupante e le autorità russe, dopo la morte di due ragazze di quindici e sedici anni, stanno conducendo delle indagini.
Pare che l’ideatore del gioco sia un ventunenne, attualmente in stato di fermo per istigazione al suicidio.
La notizia dell’horror game ci induce a riflettere sulla impressionante diffusione nel mondo degli adolescenti di pratiche autolesionistiche. Le statistiche ci dicono che, in Italia, sono almeno 2 adolescenti su 10 a procurare intenzionalmente e sistematicamente lesioni al proprio corpo.
Prevalentemente il fenomeno riguarda le femmine. Un dato allarmante che, secondo l’Osservatorio nazionale adolescenza, è in crescita.
Talmente in crescita che negli ultimi anni si è pensato di istituire una giornata mondiale dedicata proprio all’autolesionismo (“Self-injury Awareness Day”), celebrata lo scorso 1° marzo.
Ma come arrivano gli adolescenti a tali pratiche?
In genere nel gruppo c’è sempre un coetaneo “iniziatore”, o addirittura la possibilità alternativa è di iscriversi appunto a un horror game online. Ci si procurano lamette (a volte smontandole addirittura dai temperamatite), oggetti appuntiti, accendini, gomme da cancellare, vetri con cui tagliarsi (cutting), o produrre abrasioni o bruciature (branding). A volte si agisce in gruppo, altre in chat dove poi si postano le foto delle proprie ferite, in una sorta di folle fiera narcisistica.
Qualcuno lo fa solo occasionalmente per farsi accettare dal branco, altri invece entrano nel tunnel dell’autolesionismo, che poi rivela una sorta di dipendenza.
Ma quali sono i motivi che spingono verso l’autolesionismo?
I giovani spiegano che, per loro, è un modo di controllare, o interrompere un dolore mentale troppo forte, una insostenibile angoscia, un “sottile dispiacere” (per dirla con le parole di una famosa canzone).
La loro risposta, dunque, al “male di vivere”.
Per altri, le ferite sono un modo di “percepire” la realtà circostante, liberandosi da una sensazione di vuoto esistenziale che li opprime. La ferita diventa un assurdo rifugio.
Le famiglie spesso se ne accorgono tardi, magari per caso.
Ancora una volta siamo di fronte a una risposta “deviata” per un bisogno che dovrebbe essere “semplice” e primordiale: il dolore.
Il dolore chiede l’accudimento, il conforto, l’empatia. Dal dolore si guarisce. Ma quando resta prigioniero delle mura della solitudine, diventa silenziosamente e inesorabilmente emorragico.
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