Qualche settimana addietro ha fatto sensazione la notizia di una donna, titolare di un ufficio postale in un piccolo comune del centro Italia, che, dopo aver convinto i suoi compaesani a trasferire sui conti correnti della sua agenzia i pochi risparmi e gli accrediti delle modeste pensioni, ha prelevato il malloppo (un paio di milioni di euro) e si è resa irreperibile. Una tempestiva indagine l’ha rintracciata in Svizzera, incredibilmente scoprendo che la consistente cifra sottratta con studiata gradualità, fosse già stata parzialmente investita per alimentare una vecchia passione: il gioco.Più che di passione si deve parlare, nel caso citato, di malattia, poiché, ormai da tempo, quando essa risulta compatibile con alcuni parametri codificati (quale la connessione con reati di frode, furto, appropriazione indebita), viene descritta come un vero disturbo paranoico, studiato da neurologi, psicologi e sociologi, assimilabile alla piromania, alla cleptomania ed alla tricotillomania (impulso irrefrenabile a strapparsi capelli, ciglia e peli pubici).Secondo statistiche attendibili, la popolazione di coloro che sono dediti al gioco d’azzardo patologico (GAP) sfiora, nel nostro Paese, un milione e mezzo di individui.Oltre ai simposi medici, si tengono, sul più generale fenomeno, periodici ed inutili convegni al termine dei quali viene rilanciato l’ipocrita anatema, puntualmente ignorato in tutte le sedi istituzionali (governo, parlamento, istruzione, giustizia, sindacati, associazioni di consumatori, etc.).I dati ufficiali emersi raccontano che, nel corso del 2011, l’80% degli italiani, ha dedicato attenzione al gioco legalizzato, investendovi mediamente oltre 25 euro alla settimana. Da tale stima è esclusa la quota cospicua, delle scommesse clandestine sugli eventi sportivi. Quest’ultimi, per obiettività, debbono essere almeno in parte assolti dall’aggettivazione azzardosa, poiché basati ( salvo le “combine” pugilistiche di ieri e il calcio scommesse di oggi) sull’abilità innata o acquisita tramite l’allenamento e l’esercizio. Parecchi imperatori dell’antica Roma erano forti scommettitori, ma le loro puntate sui gladiatori o sulle corse delle bighe erano affidate alla forza, alla potenza e alla perizia, non alla pura casualità. Che questa pratica abbia origini remote è dimostrato da qualche sporadico tentativo di interdirla. Un monarca mesopotamico, ad esempio, pare avesse, nel secondo millennio a.C., vietato l’uso dei “dadi” ottenuti dalla grossolana lavorazione degli “astràgali” (ossicini delle zampette di lepri e altri piccoli mammiferi). A parte un analogo tentativo nella Francia di Luigi IX, e quello di Garibaldi nella Sicilia appena conquistata, il cui divieto sui giochi d’azzardo, ampiamente controllati (che novità) dalla malavita, dovette essere precipitosamente ritirato per le forti proteste popolari, la storia trasmette una ben più diffusa acquiescenza ed una benevola (interessata) approvazione verso tutto ciò che sotto forma di riffa, scommessa o gioco, potesse costituire facile introito per l’erario.L’avvento del moderno gioco d’azzardo può esser fatto temporalmente risalire al tardo Medioevo quando, nei centri urbani, venne autorizzato sotto le logge o, irriverentemente, sui sagrati delle chiese. La bisca in ambiente chiuso arrivò più tardi, all’esordio del Rinascimento, con lo scopo di allontanare dai luoghi pubblici all’aperto, i giocatori più incalliti e riottosi, che a cagione delle bestemmie e del turpiloquio costituivano motivo di scandalo e disordini.Un gettito così imponente tra i cespiti dello Stato, trova ora consensi presso il Ministero dell’Economia, i cui funzionari preposti non peccano di fantasia nel reperire nuove e sempre più allettanti proposte, meglio rispondenti ai gusti dei moderni giocatori. Vengono privilegiati allo scopo, alcuni requisiti di facile presa, quali la semplicità (i giochi non richiedono specifiche abilità), la riscossione immediata (che a sua volta amplifica il consumo, suggerendo il reinvestimento della vincita), le nuove tecnologie (l’offerta dei casinò “on line” è molto alta ed allarga la base del gioco d’azzardo ad un’utenza più giovane, quando non minorile, di ancor più difficile controllo). Senza voler sconfinare in ambiti che investono l’etica e la liceità, un paio di considerazioni appaiono legittime ed opportune.Gli odierni giochi d’azzardo, quelli che riscuotono maggior successo tra il pubblico, sono sfacciatamente squilibrati sotto il profilo strettamente matematico. Se si gioca a dadi il numero delle combinazioni favorevoli al giocatore è qualche milione di volte più grande di quello offerto a chi insegue la cinquina nelle tre estrazioni settimanali.Il gioco d’azzardo legale è un’imposta in maschera, subdola e sleale, applicata sulla speranza, che procura danni occulti, di considerevole gravità, associati a costi indiretti sempre sottovalutati, comunque pesanti. A poco o nulla vale organizzare tavole rotonde e convegni, quando, di fatto, esso viene sopportato, giustificato, incentivato.E’ una delle tante contraddizioni di questa nostra Italia alla rovescia, dove, da un lato, i “poveri” sono sempre più numerosi e, dall’altro, si spendono sessantasei miliardi di euro all’anno (ben oltre l’importo dell’ultima “manovra economica” di Mario Monti) tra “gratta e vinci”, superenalotto, lotterie e videopoker.Giunge opportuno e pertinente in proposito l’allarme rilanciato dal cardinale Bagnasco, la cui voce, più che mai autorevole, si disperde in un deserto di ipoacusici, ma con profilo audiometrico assolutamente …normale.
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