Ci eravamo sentiti appena il giorno prima. Come al solito, arrivava la telefonata a tarda sera per una chiacchierata con vari spunti, qualcuno con l’affannata sofferenza per un’amicizia interrotta che lo perseguitava da un po’ oppure per la fine del suo amato teatrino, palestra della sua passione, purtroppo destinato ad altro uso. Quanto rammarico per questa vicenda e non solo suo ma di tutti noi del giro. Nei particolari era soddisfatto per la partecipazione degli autori al concorso De Lemene giunto alla trentasettesima edizione, quasi un record a rifletterci. Nei conversari il tutto era intervallato dagli aneddoti con qualche ricordo che ci aveva coinvolto, a testimonianza di un’amicizia fervida di oltre cinquant’anni, vera anche nei piccoli gesti o forse per questo. Una lunga durata, da quando ci siamo conosciuti nel 1960 al teatro del collegio San Francesco. Sorprendentemente lì, perché non avrei mai immaginato di trovare il giovane di Montanaso Lombardo che vedevo in banca per conto dell’Enel, interessato al teatro. Da allora siamo cresciuti sodali in certe confortanti passioni di là dalle abitudini del dovere quotidiano, nel rispetto dell’hoc facere et illud non omittere. Fra i primi scambievoli passi il mannello di poesie da lui scritte nel periodo del servizio militare, consegnatemi per una sistemazione e per eventualmente pubblicarle. Cominciava a pulsare Cècu, non ancora caratterizzato nel personaggio poi affermatosi, ma già evidente con la sua figura schietta nella semplicità di atteggiamento e con la giusta dose di modestia unita all’ironia, quella semplicità che appariva anche nei sussurri lirici di “Cantano i grilli”, la silloge stampata dalle edizioni Gastaldi nella primavera del 1965, andati a Milano con la Bianchina e impacciati come ‘du gurguan’ a cercare la via. Nel frattempo avevo conosciuto il nonno patronimico detto Tognu Maratuna e gustato il suo sapido esprimersi da autentico dialettofono, specie quando nonno e nipote interloquivano durante le sedute di posa per il ritratto fatto all’avo da Felice Vanelli. Da lì l’idea mia di spronare Antonio il giovane ad abbandonare il petrarchismo dei versi in lingua per coltivare la vena del dialetto con tutte le valenze di fragranza, proverbialismo e sonorità sapienziale. Nascevano le prime poesie, gli atti unici (“Una dumenica sira” l’esordio nel 1970), ma nasceva soprattutto il capocomico Cècu e con lui la compagnia filodrammatica “I Soliti” e le varie commedie scritte e interpretate da Antonio Ferrari, da allora non più chiamato così (in italiano procederà invece con una copiosa produzione di testi musicali con il pseudonimo di Anfer e con la casa editrice “Mezz liter music”, una parte della sua vita questa non tanto conosciuta seppure affermata come paroliere ed editore).Cècu, nomen omen. Infatti i soprannomi (le scurmagne) o gli abbreviativi riflettono gli scorci più arguti, incisivi e originali del dialetto, della creatività genuina e originale della lingua materna, lingua d’uso e vicina alle cose che conserva “ciò che è umanamente possibile conservare”, secondo il grande Biagio Marin.Un susseguente passo è avvenuto nel 1974 con “Tra un nigul e un ragg de sul” e la prefazione dell’indimenticabile Age Bassi, una raccolta della fresca e sincera ispirazione con il soffio vivo di vero e autentico poeta. Poco dopo l’idea, una mattina a casa mia, di finalizzare un concorso di poesie in dialetto (non dialettali) della nostra terra, dedicato all’arcade poeta lodigiano Francesco de Lemene, in un secondo tempo esteso alla poesia milanese e infine a tutti i dialetti lombardi). In dialetto non tanto per un nostalgico riflusso (a quel tempo di postmodernismo era concetto in voga), ma per la difesa di un patrimonio culturale di espressione e comunicazione familiare, affettiva, difesa della lingua demotica ovvero della sapida parlata popolare. Un idioma da salvaguardare dalle crescenti insidie della glottotecnica, del neo italiano gergale della scienza e della tecnica massmediale, standardizzata.Tornano i ricordi e si sovrappongono nello strazio della memoria e quest’anno non avrò più a fianco “el me Cècu”, da quando, oltre quindici anni or sono, l’ho voluto vicino per la cerimonia di presentazione e premiazione della rassegna. Non solo, ma mancanza più grave è la sua assenza quale solerte organizzatore del nostro Concorso che doverosamente proseguirà come tributo alla sua memoria. Questo ho detto alla moglie Alba e al figlio Luca nel momento di doloroso sconforto davanti alla tomba il giorno del funerale. Alba, la Carolina del palcoscenico e Luca il giovane sindaco del paese, che rendeva orgoglioso il padre. Quanta gente per Cècu quella mattina a Montanaso e che partecipazione spontanea per il suo addio, arrivato così all’improvviso e in malomodo. Non è vero che sia aprile il mese più crudele, per noi amici di Cècu e del suo teatro. Caro Andrea Maietti lascia perdere Eliot, ma l’inverno, doppiamente freddo attorno ai giorni della merla, ha visto andarsene sedici anni or sono Age Bassi, qualche anno dopo di dicembre Giovannino De Vecchi e ora mercoledì 25 gennaio il nostro Cècu detto Antonio. Dire amico qualche volta suona come parola abusata, quasi vuota o banale. Antonio Ferrari è stato qualcosa di più per me.I personaggi della nostra letteratura dialettale, salvo qualche eccezione, sono spesso considerati maschere, macchiette, caratteristi piuttosto che veri personaggi. Antonio ha creato Cècu, il contadino dall’aspetto bonario e arguto, ironico e saggio, per avvicinarsi alla verità delle cose e degli uomini senza oltraggio, intento a captare l’ispirazione dall’esperienza della vita, della vita della natura, dal nostro vivere in mezzo agli altri, “tra un nigul e un ragg de sul – fa un’opera buna – E poeu amó, tra un nigul e un ragg de sul – sarà i oeugi – cun le carte in régula”. Una clausola esistenziale perfetta, vaticinio e canto per il suo autore.Quando il fratello Paolino alla fine della funzione in chiesa ha suonato le note dolenti del “Cavagera” (una musica tra le preferite da “lui” insieme a “A l’usteria delle sett curtelade”) la commozione mi ha attanagliato. Anche adesso nel dolore muto vengono lacrime silenziose. Ciao Antonio detto Cècu da tutti noi tuoi amici ed estimatori. Te sarat i oeugi impruvisament. Ti sia lieve la terra, anche se la terra purtroppo è lieve a modo suo e fredda, troppo fredda.
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