Quando percorriamo l’autostrada da Torino a Venezia incontriamo fabbriche, paesini, centri commerciali, intervallati da uscite per piccoli comuni o per capoluoghi di provincia: è sempre presente l’impronta dell’edilizia, senza soluzione di continuità. Un simile effetto si può intravedere lungo la costa adriatica tra il Veneto e le Marche, o sul Tirreno tra Roma e Napoli.Alcuni architetti classificherebbero il fenomeno come l’italianizzazione del nuovo fenomeno urbano. Noi non abbiamo le megalopoli di oltre 10 milioni di abitanti. Non c’è in Italia una Pechino, una Città del Messico, una Rio de Janeiro, neanche una New York o una Londra. Ci adeguiamo. L’effetto, però, produce la cementificazione del nostro territorio a un ritmo impressionante: oltre 100 ettari al giorno (dati Ispra). Mangiamo la nostra terra senza rendercene conto. Sembrerebbe anche senza nemmeno comprenderne le gravi conseguenze.Invece di avere a cuore e di custodire quella parte di creato che ci è stata affidata, costruiamo una torre di Babele in orizzontale. Composta da mancate pianificazioni urbanistiche, costruzioni abusive condonate, mega centri commerciali e via dicendo.Stiamo snaturando il paesaggio. Una delle risorse più preziose per il nostro turismo, perché oltre al patrimonio artistico il nostro Paese è famoso per le sue colline, le sue coste, le sue montagne. Lasciamo nella crescita caotica le nostre città, che vedono gemmare periferie e crescere il traffico e l’inquinamento. Senza curare luoghi per la cura della convivenza. Così la cultura della piazza, e del passeggio, che caratterizzava un tratto costitutivo italiano cede il passo a quella dello shopping.Danneggiamo la struttura della nostra agricoltura, che non si fonda solamente sui grandi produttori. Ma sulla qualità dei piccoli, sulle coltivazioni biologiche e sui prodotti doc e dop. L’abbandono dei campi è anche dovuto alla scarsa convenienza dei produttori agricoli, spesso succubi delle grandi catene di distribuzione.Le conseguenze riguarderanno anche la capacità di soddisfare la domanda alimentare interna del nostro Paese. Per ora sufficiente a coprire il 73% dei cereali richiesti, il 64% del latte, il 33% dei legumi, il 72% della carne, il 73% dell’olio di oliva. E in futuro?Serve un nuovo modo di rapportarci con la natura. Lo sviluppo integrale, come ci ha ricordato Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate”, è connesso al rapporto con il nostro ambiente: “Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all’edonismo e al consumismo, restando indifferente ai danni che ne derivano”. Sicuramente abbiamo bisogno di un nuovo progetto politico che coniughi ambiente e sviluppo. Però non è soltanto una responsabilità delle istituzioni, a ognuno di noi è richiesto un impegno. Si tratta di raccogliere l’invito del Papa alla conversione per costruire nuovi stili di vita.
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