Sfruttamento anche in banca, anche a Londra

E’ durata poco tempo la notizia, comparsa sul Sole 24 ore del 21 agosto, del giovane stagista tedesco presso la Bank of America di Londra che è morto dopo avere lavorato ininterrottamente per tre giorni e tre notti. Penso meriti, invece, un minimo approfondimento il problema a cui ci rimanda, un tema che pensavamo oramai superato e che invece la crisi attuale ci fa riscoprire in modo drammatico: il concetto di sfruttamento del lavoro, ma in questo caso i giornali hanno parlato di supersfruttamento. Si tratta di un tema che di questi tempi ricorre frequentemente in riferimento a certe categorie di lavoratori e lavoratrici, tant’è che se ne parla per le diverse tipologie di lavori precari, oggi presenti nella nostra società, per chi lavora nei call-center, per tanti giovani tirocinanti negli studi professionali non retribuiti oppure retribuiti solo saltuariamente e così via. Non se ne parla più invece in riferimento ai soggetti ed al luogo di lavoro in cui tale concetto originariamente è nato, il lavoro produttivo di beni materiali e la fabbrica, non perchè in essi lo sfruttamento non ci sia più (e come si spiegherebbero altrimenti la polarizzazione della ricchezza nella nostra società, lo spostamento abnorme che si è realizzato in termini di distribuzione del reddito dai salari ai profitti o i lauti guadagni dei super manager) ma perchè le conquiste sindacali dei bei tempi andati in qualche maniera ce lo avevano fatto passare in second’ordine. Ma quando parliamo di questa categoria economica, perchè di questo si tratta, cosa dobbiamo intendere? Per cercare di cogliere il senso profondo di questo concetto occorre rifarsi a colui che l’ha teorizzato e meglio analizzato, un tale Carlo Marx, anch’esso messo in soffitta, ma che di questi tempi tanti, e non solo fautori del socialismo, riscoprono come studioso che è stato capace di entrare nei meandri del funzionamento del sistema capitalistico. Questo teorico lo ha caratterizzato in questi termini: la differenza fra il valore che apporta il lavoratore all’interno del processo produttivo, il valore della forza lavoro che contribuisce a determinare il valore ed i prezzi delle merci, ed il valore delle merci che il lavoratore può acquistare con il suo salario e che servono alla riproduzione della forza lavoro in un contesto sociale dato (per cui il valore della forza lavoro apportata nel processo di valorizzazione produttivo è sempre superiore al valore della FL contenuta nelle merci che servono alla riproduzione, da qui lo sfruttamento). In questa analisi non c’è la categoria del supersfruttamento, ma la differenza fra plusvalore (o sfruttamento)assoluto che deriva dall’aumento del numero di ore che una persona lavora in una giornata e plusvalore relativo, ottenuto tramite l’intensificazione del lavoro grazie alla applicazione delle tecnologie: già qui possiamo vedere come i casi sopra richiamati possono tranquillamente rientrare in queste tipologie. La storia di questo concetto andrebbe meglio approfondita, perchè ha una storia alle sue spalle, che spiega anche il perchè della sua rimozione, e che va dalla messa in discussione di tale concetto ad opera degli economisti neoclassici che hanno sostenuto che esso non reggeva al problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, i prezzi che si impongono sul mercato; alla soluzione data sempre dagli economisti neoclassici che, attraverso la teorizzazione della funzione di produzione hanno sostenuto che nella nostra società lo sfruttamento non esiste perchè la retribuzione dei fattori della produzione (terra, capitale e lavoro) corrisponde esattamente all’apporto marginale che essi danno alla produzione; alla messa in discussione di tale concetto da parte di Pierangelo Garegnani, un economista italiano della scuola di Piero Sraffa, che ha dimostrato che la funzione di produzione ricade negli stessi limiti che sono stati evidenziati per la trasformazione dei valori in prezzi di Marx; fino alla soluzione data al problema da parte di Piero Sraffa che nella sua opera del 1960 “Produzione di merci a mezzo di merci” ha fornito una soluzione non marxiana al problema della trasformazione dimostrando che lo sfruttamento esiste in quanto vi è una relazione inversa fra salari e profitti: se gli uni salgono gli altri scendono e viceversa.Semplifico per arrivare a quello che ritengo sia il problema di fondo: dove sta lo sfruttamento oggi? Sicuramente c’è ancora nei posti di lavoro tradizionali, nel settore primario, indipendentemente dal fatto che non ci sia quasi più il salariato agricolo sostituito dal conto terzista, nelle industrie più o meno grandi (e mi si permetta qui una precisazione per evitare fraintendimenti: perchè lo sfruttamento si realizzi non occorre che il”padrone” sia più o meno buono, oppure sia più o meno illuminato. E’ una categoria economica che esiste indipendentemente dalla volontà del singolo). Il settore del terziario, dei servizi, del pubblico impiego nella analisi marxiana non era produttore di plusvalore, ma era consumatore, viveva grazie al consumo di quanto prodotto da altri. Ritengo invece che oggi sia questa la realtà in cui andrebbe meglio approfondita l’analisi, ed il caso dello stagista tedesco va proprio in questa direzione. Penso a tutto il popolo delle partite IVA, del nuovo lavoro autonomo che si è prepotentemente affermato in questi ultimi anni perchè tutti i settori che tradizionalmente fornivano sbocchi lavorativi hanno smesso di essere tali. Per tali persone il problema dello sfruttamento rischia di essere un problema sociale; da una parte in quanto diventa enorme il divario fra il valore che essi apportano alla società e quanto ne ricavano in termini retributivi (pensiamo appunto alle retribuzioni di stagisti, co.co.pro, precari), ma dall’altra parte, ed in maniera ancora più significativa perchè la durata della loro giornata lavorativa non ha più alcun limite, in quanto per molti di essi il tempo di lavoro va ben oltre le otto ore canoniche e non si realizza mai uno stacco fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro. Con una differenza sostanziale con il lavoro salariato: che mentre la fabbrica era un luogo di socializzazione in cui le persone, vivendo le stesse condizioni, erano in grado di mettersi assieme per rivendicare diritti, orario di lavoro e salario, il terreno del lavoro autonomo in cui prevale l’individualità dei soggetti ed in cui ognuno è convinto che, grazie unicamente alle proprie capacità ed alla propria professionalità sarà in grado di vendersi al meglio sul mercato del lavoro, si finisce invece di essere sottoposti ai ricatti dei soggetti più forti. Il rimedio non può essere che quello di mettersi assieme per rivendicare soluzione legislative in cui effettivamente il rispetto delle persone e dei loro diritti (prima di tutto il lavoro) siano effettivamente una priorità della nostra società.

© RIPRODUZIONE RISERVATA