Questione carceri, la via è aperta

È il primo messaggio che Giorgio Napolitano, eletto Presidente della Repubblica il 10 maggio 2006 e rieletto il 20 aprile 2013, ha rivolto alle Camere, l’8 ottobre scorso, avvalendosi della facoltà prevista dal secondo comma dell’articolo 77 della Costituzione. E riguarda un tema forte, da affrontare con indifferibile urgenza, sul quale lo stesso Napolitano si è più volte pronunciato con determinazione e concretezza: «Parlo della questione carceraria e parto dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo». La sentenza, approvata l’8 gennaio e confermata il 28 maggio, è nota: per la seconda volta in pochi anni (la prima fu il 16 luglio 2009), l’Italia è stata condannata per aver violato l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce la tortura, nonché «le pene e i trattamenti inumani e degradanti». Il sovraffollamento carcerario è tale. Il numero di persone detenute nei penitenziari del nostro paese è pari a 64.758 (fonte: DAP al 30.09.2013) a fronte di una “capienza regolamentare” di 47.615. Indice di sovraffollamento del 136%, leggermente inferiore a quel 140,1% che nel 2012 è valso all’Italia «il non encomiabile primato» tra gli Stati dell’Unione Europea. La Corte di Strasburgo ha perciò fissato «il termine di un anno perché il nostro paese si conformi alla sentenza», sospendendo fino al 28 maggio 2014 le procedure relative alle «diverse centinaia di ricorsi proposti contro l’Italia», che – se lo stato di violazione della Convenzione europea non cesserà – sono evidentemente destinati a essere accolti. Dunque, «cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale». Una condizione che rivela, tra l’altro, il fallimento di un sistema inumano quanto dispendioso: la Corte dei Conti ha infatti evidenziato che «il sovraffollamento carcerario – unitamente alla scarsità delle risorse disponibili – incide in modo assai negativo sulla possibilità di assicurare effettivi percorsi individualizzati volti al reinserimento sociale dei detenuti».La Legge 94/2013, la cosiddetta “svuota-carceri” in vigore dal 20 agosto, non è stata risolutiva (né poteva esserlo, nell’immediato): rispetto al 30 giugno, il numero delle persone detenute è diminuito di sole 1.270 unità, a fronte di circa 20mila esuberi. Quali rimedi, dunque, per ridurre il sovraffollamento? Il Presidente della Repubblica propone al Parlamento «diverse strade, da percorrere congiuntamente».La prima è la riduzione del numero dei detenuti attraverso molteplici dispositivi: l’applicazione diretta della “messa alla prova” come pena principale; la reclusione presso il domicilio; la limitazione del ricorso alla custodia cautelare (soltanto il 62% dei ristretti nelle carceri italiane sconta una condanna definitiva, ovvero è riconosciuto colpevole); per i detenuti stranieri, l’espiazione della pena nei paesi di origine; l’attenuazione degli effetti della recidiva; la depenalizzazione di alcuni reati (la tragedia di Lampedusa riporta ora con urgenza alla necessità di cancellare il reato di immigrazione clandestina). La seconda strada consiste nell’aumentare la capienza degli istituti penitenziari, portando a termine il “Piano Carceri” che entro la fine del 2015 consentirà di aumentare la disponibilità complessiva di 10mila unità, di cui però soltanto 4mila entro il maggio 2014.Ecco dunque la necessità di intervenire «con il ricorso a “rimedi straordinari”»: un indulto «di sufficiente ampiezza» (pari, per esempio, a tre anni di reclusione) e una amnistia che riguardi «fatti “bagatellari”» (ovvero di non rilevante gravità). L’indulto - che consiste nel condono, totale o parziale, della pena - avrebbe l’effetto immediato di ridurre in modo considerevole la popolazione carceraria: sono circa 24mila i condannati in via definitiva con residuo di pena inferiore ai tre anni (fonte: DAP al 30.06.2013); l’amnistia – che estingue il reato – consentirebbe alla giustizia di dedicarsi ai crimini più gravi in tempi più celeri. Nella serata dello stesso 8 ottobre, l’attenzione di una parte del Parlamento si è rivolta a un solo reo eccellente (per altro non detenuto), che non potrà comunque godere dell’amnistia, perché il reato di frode fiscale non è derubricabile a “bagatella”. Nelle carceri italiane vi sono invece 64.758 donne e uomini costretti a vivere in condizioni inumane e degradanti: la «questione carceraria» italiana è una tragedia, indegna di un paese civile. Ora è compito del Parlamento – che ne ha competenza – scriverne la fine.È «indispensabile – afferma inoltre il Presidente della Repubblica – avviare una decisa inversione di tendenza sui modelli che caratterizzano la detenzione, modificando radicalmente le condizioni di vita dei ristretti, offrendo loro reali opportunità di recupero».L’inversione di tendenza è già iniziata – non senza resistenze e opposizioni -, il 18 luglio scorso, grazie alla circolare a firma di Giovanni Tamburino (capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), in materia di “sorveglianza dinamica”, che dispone la progressiva trasformazione delle sezioni a custodia attenuata e degli istituti di media sicurezza in “carceri aperte”. Aperte al loro interno, naturalmente (l’istituzione totale si caratterizza sempre comunque per la propria impenetrabilità rispetto all’esterno), mediante l’apertura delle celle, riportate alla funzione di luogo di pernottamento. In questo modo, durante il giorno, le persone detenute valutate di non alta pericolosità sociale hanno ora la possibilità di circolare e sostare negli spazi destinati alle attività trattamentali (formazione, lavoro, tempo libero) e ai servizi (cortili, alimentazione, colloqui).Le ragioni di questa circolare, le cui parole chiave sono «umanità e dignità», si ascrivono al dettato costituzionale (l’articolo 27 che individua nella «rieducazione» il fine della pena), alle raccomandazioni europee (Ree 2006 del Consiglio d’Europa in materia di “Regole penitenziarie europee”), al «malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano» (parole, queste, della Corte europea dei diritti dell’uomo). Così come il messaggio del Presidente della Repubblica, la circolare pone al centro dell’istituzione carceraria la persona detenuta, la cui permanenza in carcere deve essere finalizzata al recupero e al reinserimento. Finalità evidentemente impossibili da conseguire se i ristretti trascorrono la quasi totalità del proprio tempo in cella, senza, dunque, che non solo gli agenti di polizia penitenziaria, ma anche e soprattutto educatori, psicologi, assistenti sociali abbiano la possibilità di conoscerli e di costruire con loro un percorso di reale efficacia. Perché le persone detenute non sono il reato che hanno commesso, per il quale sono condannate e scontano la pena: una narrazione e un percorso che pongano al centro l’umanità della persona e l’unicità della sua storia hanno sicuramente maggiori possibilità di successo rispetto alla mera riduzione in cattività.Certo, occorre coniugare «integrazione e collaborazione» con «ordine e disciplina» (altre parole chiave della circolare), occorre far leva sul «senso di responsabilità» individuale dei ristretti così come sull’efficienza della linea di comando, ovvero della responsabilità istituzionale. Linea di comando che nei penitenziari italiani pone al vertice della struttura direttore e comandante, i quali hanno il dovere di tutelare l’integrità fisica di tutti i detenuti, nessuno escluso, e di non lasciare soli agenti e assistenti di polizia penitenziaria, perché questi non possono assumere responsabilità che eccedono i compiti loro assegnati.La via è aperta: «si tratta di questioni e ragioni – questa la conclusione del messaggio presidenziale - che attengono a quei livelli di civiltà e dignità che il nostro paese non può lasciar compromettere da ingiustificabili distorsioni e omissioni della politica carceraria».

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