Purché non cancellino gli altri uffici

Province addio? Sembra ormai essere questo l’orientamento del Governo, che per la verità trova riscontro in un diffuso sentire dell’opinione pubblica, tendente ad individuare in questo livello del nostro ordinamento istituzionale una fonte di sprechi di risorse pubbliche.La prima riflessione che questa situazione mi porta a formulare è che trovo singolare che dopo anni in cui il dibattito è stato dominato dalle istanze di decentramento (avvicinare i servizi ai territori) a prevalere sia ora una richiesta (consapevole o no) di accentramento.La seconda valutazione è invece relativa all’efficacia della soppressione delle Province ai fini dell’obiettivo a cui si dice che questa misura si ispiri, vale a dire la riduzione dei costi dell’amministrazione pubblica; in primo luogo, è (nuovamente) singolare che la “cura dimagrante” dello Stato inizi dal suo comparto, quello degli enti locali, meno pingue (nonché l’unico che negli ultimi cinque anni ha prodotto avanzi di bilancio, mentre a tutti gli altri livelli si è continuato ad alimentare la spirale del deficit); inoltre, bisogna considerare che gli unici risparmi conseguenti alla scomparsa delle Province sarebbero quelli relativi alle spese per il funzionamento di giunte e consigli, stimati in circa 100 milioni di euro all’anno, un importo in assoluto non trascurabile, ma in realtà residuale in relazione ai “chili” che lo Stato è obbligato a perdere (basti pensare all’ammontare delle ultime manovre finanziarie, pari a circa 100 miliardi di euro, peraltro senza nessuna misura strutturale, cioè destinata a durare, e basate più sull’aumento delle entrate che la riduzione delle spese). Ma da qualche parte, si obietterà, bisognerà pur iniziare, almeno per dare un segnale. Peccato, però, che questo segnale rischi di marchiare in modo indelebile e negativo la condizione di tante realtà locali, tra cui senz’altro quella di Lodi; comunità piccole ma dalla forte e chiara identità sociale e storica, inevitabilmente relegate nelle ultime righe della lista delle priorità se inserite in grandi ambiti (già ora Milano, capoluogo di una Regione come la Lombardia che conta 8 milioni di abitanti e oltre 1.500 Comuni, appare amministrativamente “lontana”), ma capaci di cercare una propria via allo sviluppo ed al miglioramento delle condizioni socio-economiche se possono far leva su strumenti e servizi gestiti in autonomia. Se il giudizio sui risultati ottenuti in 16 anni di esistenza della Provincia di Lodi è ovviamente aperto e non può essere univoco, è un dato di fatto che la disponibilità di questi strumenti e di questi servizi (approdati sul territorio solo in virtù del suo status di Provincia) sia stata un potente volano: non voglio correre il rischio di annoiare proponendo sfilze di statistiche, ma chiunque avesse il desiderio e la pazienza di consultare le tante fonti di informazione sull’evoluzione dei principali indicatori socio-economici del territorio dal 1995 ad oggi potrebbe facilmente constatare come il Lodigiano sia stato uno dei comprensori più dinamici ed in crescita dell’intero Paese.Che poi questa crescita sia stata di qualità o meno, equilibrata o confusa, stabile o evanescente, è tutto un altro discorso, che resta, appunto, aperto a tante e differenti considerazioni: ma avere o no sul territorio i centri decisionali dell’amministrazione, i servizi pubblici, le rappresentanze delle categorie economiche, degli ordini professionali, dei sindacati, fa tutta la differenza del mondo. Al di là delle varie opinioni sulle architetture istituzionali (serve o è superfluo un “livello intermedio” tra la Regione ed i Comuni?), il punto essenziale della questione è che la scomparsa della Provincia non comporti la scomparsa dal territorio dei servizi (Camera di Commercio, Prefettura, Questura, comandi di Carabinieri, Guardia di Finanza e Vigili del Fuoco, Provveditorato agli Studi, Motorizzazione Civile, Commissione Tributaria, Ragioneria dello Stato, e l’elenco completo sarebbe molto più lungo), il che ci condannerebbe ad una clamorosa regressione, di cui non tarderemmo a percepire le gravi conseguenze nella quotidianità, non in astratti modelli teorici con i quali nessuno ha peraltro voglia di gingillarsi. E’ questo il grande punto interrogativo che dovremo affrontare quando il disegno di legge di riforma costituzionale varato dal Governo inizierà il suo lungo e articolato percorso, che potrebbe anche concludersi con un referendum, come è già accaduto con le riforme del 2001 (approvata dal voto popolare) e del 2004 (che fu invece bocciata). Anche se stralciata dal decreto varato lo scorso 13 agosto e affidata, appunto, ad un Ddl, la soppressione delle Province è comunque parte organica di una manovra che pone agli enti locali, e quindi ai territori, altri e non meno gravi problemi. Come quelle che l’hanno preceduta negli ultimi anni, anche quest’ultima manovra sui conti pubblici conferma un paradosso che sembra essere diventato una costante nella politica finanziaria del Paese: ancora una volta, infatti, l’unico comparto dell’amministrazione pubblica che (dati alla mano) è in attivo, è chiamato ad affrontare drastici tagli, per compensare il deficit prodotto da altri livelli del nostro ordinamento istituzionale. Non solo: agli enti locali ed alle Regioni viene imposto di farsi carico di una quota degli oneri della manovra ben superiore alla loro incidenza sul totale della spesa pubblica. Se a questa logica distorta si aggiungono i vincoli di un Patto di Stabilità perverso (che ha raggiunto l’unico obiettivo di congelare le risorse degli enti locali e di abbattere di oltre il 30 per cento i loro investimenti in opere pubbliche, che potrebbero invece giocare una importante funzione anticiclica in una fase di crisi economica) e le incertezze sull’attuazione di un “federalismo fiscale” lacunoso e pasticciato, si delinea un quadro di insostenibile gravità, che potrebbe evolversi solo in due direzioni: un malaugurato inasprimento dei tributi locali od un radicale ridimensionamento di servizi ed investimenti. Si tratta di un bivio di fronte al quale nessun amministratore vorrebbe mai trovarsi, ma già tanti tra gli oltre 8.000 Comuni italiani hanno intrapreso l’una o l’altra strada. A Lodi, sino ad oggi, siamo riusciti a costruire e percorrere una “terza via”, senza aumentare le tasse (anzi, diminuendole), senza tagliare gli investimenti (anzi, incrementadoli), senza ridurre i servizi (anzi, sostenendo la spesa sociale, per far fronte a bisogni sempre più acuti e diffusi, in risposta a nuove e crescenti forme di disagio di una parte significativa della cittadinanza). Ciò è stato possibile grazie alla prudenza ed alla capacità di chi ha amministrato il Comune per dieci anni prima delle due giunte da me presiedute, lasciando in eredità un bilancio sano, con fondamentali solidi, basso indebitamento, bassa incidenza dei costi fissi di struttura sulla spesa corrente, lungo una linea che abbiamo continuato a percorrere dal 2005 ad oggi, integrandola con una decisa spinta agli investimenti in opere pubbliche, finanziata in particolare con due modalità: la capacità di ottenere da Stato, Regione e fondazioni contributi straordinari, concessi tramite bandi che hanno visto i nostri progetti classificarsi spesso ai primi posti delle graduatorie; e la massima valorizzazione possibile del patrimonio immobiliare del Comune. Si tratta, tuttavia, di fattori legati a troppe variabili per poter diventare un “metodo” sostenibile a lungo termine; l’orizzonte verso il quale muoversi dovrebbe essere invece quello di una profonda e rapida riforma delle modalità di finanziamento del fabbisogno di bilancio dei Comuni, quella scritta nel capitolo della “fiscalità municipale” nel quadro del cosiddetto “federalismo fiscale”. Pochi Comuni in Italia hanno più interesse di quello di Lodi a vedere profilarsi questo orizzonte, dato che solo 3 capoluoghi di Provincia (su 110) ottengono dallo Stato minori contributi ordinari pro capite rispetto al nostro (222 euro contro una media nazionale di 387!). Ma a questo traguardo (che sembra allontanarsi invece che avvicinarsi e che assume contorni sempre più confusi) bisogna cercare di arrivarci presto ed in buono stato di forma, mentre la manovra impone nuove catene ai piedi degli enti locali, rischiando di trasformare il cammino verso la riforma in una corsa ad handicap.

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