L’emergenza sociale drammatica che colpisce tutti i Paesi occidentali e l’immissione nel “sistema” di miliardi di dollari e di euro con risultati deludenti, richiamano l’attenzione su questioni più strutturali. La domanda è nel senso comune: serve continuare così o bisogna cambiare strada? Il rigore è necessario, ma alcune misure chieste dall’Unione Europea, utili per ridurre il debito, non alimentano la recessione? È opinione comune che l’ultrarigorismo voluto in particolare dalla Germania deprima l’economia e che bisogna fare crescita: come? Tornando al passato? E lo strapotere della finanza, non “svuota” anche la politica e la democrazia? Qualche accenno:
a - la recessione che colpisce l’Occidente ha cause diverse, ma prima occorre ricordare che il Mondo da“bipolare”, è divenuto “multipolare” e che, per fortuna, i Paesi che sono “emersi” come nuove potenze (Cina, India, Russia, Brasile, Sud-est asiatico ecc.) hanno tassi di sviluppo che vanno dal 4 all’8%, il che, oltre a migliorare la vita in quei Paesi, aiuta il nostro export. Naturalmente questi Paesi sono anche competitivi e “concorrenti”, e i Paesi occidentali sono sollecitati a innovazioni più coraggiose sia di carattere economico che sociale per difendere una “civiltà” fra le più avanzate, costata “lacrime e sangue”. Si esaurisce il “secolo americano” (non certo la forza degli Usa; le scelte di Obama segnano primi risultati) che abbiamo conosciuto, il futuro è più incerto e complesso.
b - Questa transizione avviene dentro un’altra rivoluzione storica, quella scientifico-tecnologica
che ha cambiato i processi produttivi alimentando la “globalizzazione” e il “finanzcapitalismo”, oltre che il lavoro e la vita di miliardi di persone. La tecnica avvicina i popoli del mondo, facilita soluzioni, ma determina una mutazione antropologica: necessaria per innovare e competere, sempre di più diviene uno strumento a sé che, data la sua forza, si autoriproduce. Per “tecnica” si intendono quegli apparati che hanno poteri contrattuali immensi, la cui funzione “assorbe” l’autonoma elaborazione della scienza (si pensi alle agenzie di rating che non hanno previsto la crisi ed ora sono considerate come gli antichi “oracoli”; si pensi alla creazione di denaro attraverso il debito). Lo strapotere della finanza che è di gran lunga più forte di quello degli Stati nazionali, ne è una conferma. Il finanzcapitalismo, che si avvale della tecnica, è stato agevolato ovviamente da quelle forze neoconservatrici che chiedevano il “primato” dell’economia sulla politica.
c - Esplodono i temi della biopolitica e in particolare la questione dei “beni comuni” che appartengono a tutti (conoscenza, aria, acqua) ma che sono messi in discussione da uno sviluppo irrazionale. Sono beni “vitali” che non devono essere mercificati e che devono essere amministrati con rigore sperimentando anche forme nuove di gestione con modelli istituzionali differenziati oltre il rapporto pubblico-privato. La crisi climatica ci ricorda, con episodi drammatici (sei milioni gli sfollati per calamità ambientali), che nulla potrà continuare “come prima” e che le risposte positive della green-economy, creano nuove imprese e posti di lavoro. Lo “sfondamento” dell’economia e della finanza sulla politica ed il “primato” della tecnica rendono più complesse le soluzioni ai problemi della bioetica e la stessa democrazia appare logorata, in affanno e sulla difensiva. Gli Stati sono deboli nel governo di processi che sono “planetari”, preda localmente di incursioni populistiche. Non si rimpiangono ovviamente né le esperienze degli Stati nazionali del ‘900 (ricordiamo le due guerre mondiali, la “guerra fredda o le avventure coloniali, le lesioni al diritto internazionale ecc), ma si avverte il bisogno di un “ripensamento” più radicale. “Globale” e “locale” devono ricomporsi.
d - “Nessun Paese, nessun Stato può farcela da solo” (Presidente Monti) Isolarsi rispetto alla Comunità internazionale sarebbe una pia illusione perchè i processi economici sono profondamente integrati e la prospettiva dell’Unione Europea più che mai è indispensabile. Le difficoltà dell’Unione Europea sono in atto da tempo: si pensi alle fatiche nella elaborazione della Carta Costituzionale, ai Referendum contrari di Francia e Olanda, al prevalere di una struttura intergovernativa e non del Parlamento o agli errori sulla Grecia costati molto di più rispetto ad aiuti inizialmente negati. L’obbiettivo dell’Europa unita e dei suoi primi e grandi protagonisti, era l’idea di un’Europa politica e federale, non più preda dei nazionalismi che portarono alle avventure totalitarie. Le difficoltà dell’euro e la crisi sociale riflettono politiche e prospettive diverse in una Europa governata ovunque da forze di destra. Il senso dell’iniziativa del Presidente Monti con Sarkosy, Cameron, Merkel, è “che il trattato franco-tedesco va cambiato e integrato, esplicitando la parte dedicata alla crescita”. Anche in Germania alcune voci autorevoli (Kohl, Schmidt) si muovono in tal senso. Crescita, dunque, e più Europa, più parlamento europeo, oltre i rinvii e i veti intergovernativi condizionati da egoismi nazionali e convenienze elettorali (si veda il caso della Gran Bretagna e quello, gravissimo, dell’Ungheria sulle libertà democratiche).
A questa nuova impostazione devono seguire coerenze nazionali. La discussione italiana si sta avviando su incentivi all’occupazione in particolare giovanile e femminile, mercato del lavoro più inclusivo e ammortizzatori sociali, liberalizzazioni (non privatizzazioni), politiche industriali.
Accanto alla concretezza dell’oggi bisognerebbe discutere anche dei processi politici di fondo che la crisi fa emergere: il capitalismo è stato egemone quando ha unito sviluppo e coesione sociale. Non bisogna offuscare la dimensione della sua crisi, nè pensare che “crolli” domani perchè ha dimostrato storicamente di sapersi trasformare e legarsi a qualsiasi regime. Forse questa crisi mostra almeno che cadono l’autoillusione nazionale (il fai da te), quella neoliberista che prevedeva “la fine della Storia”, quella neomarxista debole nel cogliere le novità e le contraddizioni di una fase inedita e quella tecnocratica che sottovaluta la potenza enorme della tecnica. Bisogna agire sulle emergenze odierne, ma nello stesso tempo cercare e indicare strade nuove per uno sviluppo sostenibile che faccia leva sulle risorse umane e sul sapere, sul territorio e sulla cooperazione internazionale, soprattutto sulla condivisione, per ritornare a pensare un futuro collettivo.
L’iniziativa del Presidente Monti in Europa sta ottenendo positive aperture, così come il suo monito a non sottovalutare i rischi populistici che possono travolgere l’Europa: indispensabile perciò bloccare le speculazioni finanziarie, creare lavoro, riformare con equità, costruendo una politica con idee forti.
Gianni
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