Con la scadenza dell’Imu a giorni, ci pare il momento giusto per occuparci della casa. Non però vista attraverso le imposte (“guardà in ca di altri sta ben no”), ma attraverso i proverbi e i modi di dire del nostro dialetto. “A fa sü la ca in piasa, chi la vör alta, chi la vör basa”, dicevano i nostri vecchi, ossia ‘far le cose in pubblico espone a facili critiche’. E allora costruiamola fuori dal centro la casa, magari lungo il fiume, giusto per ricordare l’espressione “ca sü l’Ada” (casa sull’Adda), scherzosamente trasformata in casülada, ‘colpo di mestolo’ (el casül). Abbiamo scelto un posto isolato, lontano, difficile da raggiungere? “L’è ‘ndai a sta a ca de Diu” diranno gli amici. Mentre se il luogo, oltre che isolato, è desolato, si dirà: “El sta a ca del diaul”. Espressioni, queste, che troviamo in molti altri dialetti oltre che nell’italiano. Altrettanto diffuso è l’uso di “casa” come termine di paragone dimensionale: “grand ‘me una ca”, ‘grandissimo’.
Non trova equivalente in italiano, invece, l’uso di casa per ‘grande quantità’ o ‘gruppo numeroso’: “quel lì el gh’à una ca de dané”, “al matrimoni gh’era una ca de gent”.
Al suo posto è però entrato nel vocabolario della lingua italiana il termine casino, di uso popolare ma ormai “di casa” nei “salotti bene” come nelle scuole di ogni ordine e grado e pure negli oratori: “alla festa c’era un casino di gente”, “quella camicetta mi piace un casino”. Ribadiamo che non c’è nessuna relazione col dialettale “una ca de gent”, in quanto casino qui non indica una casa piccola, e tantomeno una ‘casa signorile di campagna’ (casino di caccia o svago) o la ‘sede di un circolo di frequentazione aristocratica’ (casino dei nobili ecc.). Scomparso per legge dalla porta, il casino in questione rientra dalla finestra nel senso di ‘chiasso’ (anticamente sinonimo proprio di postribolo), ed oggi anche di “quantità”.
Fatta la casa è il momento di prender moglie, “che la piasa, la tasa, la staga in casa”, secondo il modello maschilista di un tempo: anche se poi si conveniva che “in ca d’un galantom cumanda la dona e no l’om”.
Anche perché, se fossimo noi maschi a gestirla, sarebbe perennemente in disordine, e dovremmo ogni volta scusarci con gli ospiti: “gh’ò la ca sü per sü”.
Al momento del commiato, all’ospite distratto possiamo ricordare di chiudere la porta, non però con un richiamo secco dal sapore di rimprovero ma con una domanda indiretta: “te gh’é le tende a ca tua?”. Se invece l’ospite non vogliamo proprio più rivederlo, possiamo ricorrere al più brusco, e definitivo, “ghis a ca tua”.
L’invito esplicito a tornarsene a casa propria, metaforicamente parlando, compare anche nell’espressione - diffusa un po’ in tutti i dialetti con minime varianti - “ciapa sü e porta a ca”, modo piuttosto eloquente per dire “hai avuto quello che ti meriti”.
Se anziché essere respinta una persona (un lontano parente, un amico in difficoltà...) viene accolta nella famiglia allora diciamo “l’han tirad in ca”, dove la “casa” più che insieme di muri diventa comunione di affetti.
Chiudiamo casa, osservando che nel nostro dialetto non esiste il verbo abitare: “dove abiti?” diventa “indue te ste de ca?”.
La casa disabitata diventa vöida (vuota). L’abito, che condivide con il verbo abitare una remota origine, si trasforma in un più modesto vestid.
Aldo Retus
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