Meno sondaggi e più riforme per l’economia

C’è un punto fermo che traspare nell’Europa di oggi: la costante, concreta, diffusa preoccupazione legata alla carenza di lavoro, ai redditi decrescenti delle famiglie, alle difficoltà in cui si dibattono le imprese, ai conti pubblici ballerini degli Stati. E se anche in lontananza si intravvede l’uscita dal tunnel della peggiore recessione degli ultimi cento anni - come sembrano dimostrare le «Previsioni economiche d’inverno» rese note dalla Commissione Ue nei giorni scorsi -, è innegabile la paura latente nel Vecchio continente: «uno spettro si aggira per l’Europa», si potrebbe parafrasare, facendo però riferimento alla disoccupazione, alle sue ricadute sociali, ai timori che pervadono la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle case in Europa. Le “Previsioni” presentate il 25 febbraio dal commissario finlandese Olli Rehn segnalano una lieve crescita generalizzata del Pil per quest’anno, che si irrobustirebbe nel 2015, ma con notevoli differenze da un Paese all’altro. L’economia Ue, e quella dell’Eurozona nello specifico, sembra dunque aver superato il periodo delle peggiori tensioni finanziarie, ma sul terreno restano giganteschi macigni da rimuovere: la stessa disoccupazione, l’ammontare dei debiti pubblici cresciuti a dismisura un po’ ovunque, la magra situazione del credito e degli investimenti, i livelli modesti della domanda interna. A ciò si aggiunga che, nonostante gli sforzi condotti a livello Ue, una vera e propria governance economica europea è solo all’orizzonte, quando invece sarebbero necessari, per far fronte ai competitori mondiali, una moneta unica robusta, il coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio, il completamento del mercato unico, investimenti comunitari per infrastrutture e ricerca, una vera politica energetica coordinata da Bruxelles. Tirando le somme, ciò che appare indilazionabile per imprimere una prospettiva di lungo periodo all’economia europea, e più complessivamente alla stessa integrazione Ue, è una politica capace di farsi carico di tutte queste sfide. Più Europa allora (ma diversa, efficace, più aperta) e più politica europea (posta al riparo da protezionismi e nazionalismi che fanno guadagnare qualche voto ma non costruiscono il futuro). Anche su questi temi si potrebbero confrontare politici e cittadini-elettori in vista delle elezioni europee di maggio.E proprio la sfera politica era stata chiamata in campo qualche tempo fa da un ampio studio della Commissione, intitolato «Quarterly Report on the Euro Area» (volume 12, n. 4/2013): 50 fitte pagine di analisi e cifre precedute da un interessante editoriale del direttore delle politiche economiche e monetarie, Marco Buti. Un testo «scomodo» il suo, che forse volutamente è stato fatto passare senza le dovute valutazioni «ad alta voce».Dopo aver preso atto dei dati trimestrali di fine 2013, Buti scriveva: «Guardando al futuro, le proiezioni a medio termine per l’Eurozona non offrono motivi di eccessivo ottimismo». Come mostrato nel primo capitolo del Rapporto, «nel quadro di uno scenario caratterizzato dall’assenza di cambiamenti politici, si prevede che il Pil potenziale dell’Eurozona cresca in media di poco più dell’1% nei prossimi dieci anni, ovvero circa un punto in meno rispetto al decennio prima della crisi». Nello stesso periodo, «si prevede che la crescita del Pil pro capite diminuisca di oltre mezzo punto, scendendo sotto l’1%». Dunque, scarso dinamismo economico, minori redditi per i cittadini. Subito dopo, il capo economista della Commissione osservava: «Il messaggio incoraggiante, tuttavia, è che la prospettiva della crescita frenata non è ‘incisa sulla pietra’. Le proiezioni riportate sono basate su uno scenario immobilista, ovvero sull’ipotesi che le attuali politiche rimangano invariate»; ma «i responsabili delle decisioni politiche possono evitare il tetro scenario» della stasi economica «mettendo in atto delle riforme che contribuiscano a migliorare il pieno potenziale dell’economia». In parole povere: la politica può svolgere un compito essenziale, con riforme all’altezza della situazione, in grado di cambiare il corso degli eventi in una prospettiva di medio-lungo periodo.Sempre Buti segnalava le possibili - ancorché non giustificabili - ragioni che stanno frenando le riforme utili a rianimare il sistema economico di Eurolandia e dell’intera Ue. «In primo luogo, le riforme possono comportare scelte che hanno un impatto sui gruppi d’interesse organizzati», ovvero le potenti lobby di varia marca. «Secondo, spesso il loro impatto economico positivo si produce soltanto con un considerevole scarto temporale, mentre in alcuni casi c’è un costo (politico) a breve termine»; ovvero si perdono voti, e i politici notoriamente non se lo possono permettere. È il solito problema: all’Europa, come a ciascuno dei suoi Stati membri, servono politiche innovative e di lungo respiro e politici coraggiosi, non piegati all’ultimo sondaggio elettorale. La strada per andare avanti c’è: è stretta, in salita, ma c’è.

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