Ma quanti stati fragili nel mondo

In Siria e in altri paesi sono in corso guerre che, almeno apparentemente, si configurano come un tentativo estremo di democratizzazione della nazione dall’interno. La realtà è ben più complessa. Infatti, se gli anni Novanta sono stati il decennio in cui le democrazie si sono moltiplicate nel pianeta, la decade successiva ha mostrato un declino della democrazia tanto in quei paesi in cui è storicamente consolidata, quanto in quelli che l’hanno scoperta da poco. Il trend non pare stia cambiando in questi ultimi anni. E nemmeno in quello in corso. Le democrazie nel mondo – calcolano gli organismi competenti e autorevoli istituti di ricerca – sono 77, con caratteristiche molto variabili e diversi gradi di rispetto dei diritti umani. Ci sono poi 34 paesi che vivono ancora sotto regimi pienamente autocratici o oligarchici. I paesi rimanenti vivono in differenti sfumature di regime politico, comprese tra questi due poli: spesso sono stati in cui l’autorità centrale è debole o inesistente, le relazioni principali sono rappresentate da legami di parentela estesi di tipo clanico o etnico, o da alleanze di tipo feudale con leader prominenti.A cavallo tra i diversi sistemi politici ci sono 43 paesi definiti “fragili”, in cui vivono complessivamente circa 1,2 miliardi di persone, più di un sesto dell’intera famiglia umana. Le strutture istituzionali dei loro paesi non possiedono di fatto la capacità o la volontà politica di provvedere alle funzioni fondamentali necessarie alla riduzione della povertà, allo sviluppo e alla tutela della sicurezza e dei diritti umani delle popolazioni.Gli “stati fragili” costituiscono dunque l’area politica più vulnerabile del pianeta. Si tratta, in molti casi, di paesi in cui la guerra e le emergenze complesse perdurano da decenni e hanno lentamente consumato le capacità di sopravvivenza di buona parte della popolazione. In essi si concentrano i fenomeni che minano la cosiddetta “sicurezza umana”, una dimensione che si ritiene composta da sette fattori: sicurezza economica, sicurezza alimentare, sicurezza della salute, sicurezza ambientale, sicurezza personale, sicurezza comunitaria, sicurezza politica. Tra questi paesi vi sono Afghanistan, Iraq e altri 6 stati asiatici, 26 dell’Africa sub-sahariana, altri dei Caraibi, dell’Oceania e del Medio Oriente.Di recente, alla lista degli stati “fragili” si sono aggiunti i paesi protagonisti delle cosiddette “Primavere arabe”.Paesi che escono da decenni di autarchia e oligarchie, in cui la transizione verso modelli politici nuovi non andrà necessariamente nella direzione auspicata dai più. Al momento sono tutti interessati da crisi umanitarie e politiche di dimensioni variabili, che non risparmiano violenze contro la popolazione civile e innescano migrazioni forzate. Occorreranno diversi anni prima che questi paesi raggiungano davvero una qualche forma di stabilità.Gli “stati fragili”, negli ultimi dieci anni, hanno ricevuto circa il 30% degli aiuti internazionali allo sviluppo, e circa il 90% dell’aiuto umanitario. Un impegno massiccio, di circa 40 miliardi di dollari l’anno, senza contare il contributo fornito da paesi come Cina e Arabia Saudita, che ormai si annoverano tra i massimi finanziatori mondiali, anche se nel loro caso la natura degli aiuti sfugge spesso alle definizioni comunemente in uso per i paesi Ocse. Questo impegno finanziario, però, non si è mai tradotto in un reale e sostanziale aumento della stabilità politica e in un significativo miglioramento delle condizioni di vita della popolazione nel suo complesso. Investire in aiuti, vuol dire a volte mantenere un paese appena al di sopra della soglia di disintegrazione, evitarne l’implosione definitiva e contenerne l’impatto all’interno dei suoi confini. Un approccio certamente minimalista.Ancora una volta, la soluzione dovrebbe essere politica. Ma la politica internazionale rimane spettatrice inerte.

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