Vale ancora la pena spendere una parola sul nostro territorio e non dare ascolto a quel senso di amarezza e rassegnazione che sempre più insistente bussa alla porta? Penso di sì, forte dell’eco riscosso dalla grande partecipazione agli Stati Generali e della fiducia che un congruo numero di lodigiani, attenti all’ambiente e ai suoi problemi, ha in essi riposto, sperando di non incappare nell’ennesima delusione. Per secoli, se non per millenni, l’agricoltura, e quanto ad essa connesso, è stata la principale ricchezza del territorio. Diffusasi fin dall’alto Medioevo grazie alle tecniche introdotte dalle diverse unità monastiche, insediatesi a macchia d’olio nella nostra pianura, si è fatta nel tempo fiore all’occhiello e patrimonio insostituibile. Il suolo, a poco a poco bonificato, è stato strappato alle paludi e, giorno dopo giorno, con tenacia, sudore, fatica, fra pestilenze e carestie, scorribande straniere, invasori, ma anche sprazzi di luce, il popolo di questo angolo padano dissetato dai fiumi ha saputo fare di questo immenso pezzo di terra verde uno degli angoli più rigogliosi, lussureggianti e struggenti del pianeta. Accanto ad impenetrabili boschi, ordinati filari di piante, cespugli spontanei ed incolti l’uomo ha saputo ritagliare campi e spazi per le colture più diversificate, cambiando di anno in anno la tipologia della semina, alternando i terreni per il dovuto riposo, sempre mirando a raccolti diversi, ma ogni volta abbondanti e copiosi.Oggi, dopo secoli di ritmi ripetuti, se non sempre uguali, di attività foriere di lavoro e benessere possiamo ancora dire che l’agricoltura sia la nostra risorsa primaria? In un lasso di tempo brevissimo e ad una velocità impressionante molteplici sconvolgimenti hanno intaccato il sistema agricolo, lasciandolo stravolto. Rivoluzioni industriali incalzanti, un esodo massiccio verso le città, l’abbandono delle cascine, vero fulcro dell’agricoltura, l’introduzione di tecnologie sempre più sofisticate hanno cambiato volto a questa millenaria ricchezza, umiliandola anziché sostenerla, fino a portarla quasi ad un punto di non ritorno. L’agricoltura pare a volte essersi trasformata in una povera cenerentola prevaricata dalle sorellastre tiranne e, come in una favola a rovescio, per lei, senza un cambiamento di rotta, non ci sarà riscatto, scarpina magica, o principe azzurro o fatina buona a ridonarle il suo perduto splendore.Non servono grandi menti o occhi particolarmente attenti per rendersi conto di come questa terra sia cambiata. Certamente esistono ancora spazi verdi ove lo sguardo si perde e si dilata estasiato, ma senza cedere alle corde del cuore, è oltremodo chiara la piega negativa che ha preso e continua a prendere il territorio. Osservando le distese verdi una sottile patina di desolazione e di abbandono sembra velarle con distaccata malinconia. I boschi, gli alberi, gli arbusti, ma anche i parchi, i giardini, gli spazi verdi si sono ridotti drasticamente, per cedere il passo ad agglomerati cupi e soffocanti, ad aridi immobili di scarso senso estetico, a strade, autostrade, bretelle stradali e ferroviarie che di anno in anno vengono pianificate e concretizzate, lasciando sul territorio un cantiere sempre aperto ed infinito, in uno scenario poco esaltante dove disordine, caos, polvere, rumore imperano indisturbati.E quel poco, rispetto al tanto di prima, di verde agricolo rimasto come viene gestito? La nostra campagna appare un’enorme monocoltura. Dove sono finiti i campi dorati di grano, dove si è perso il giallo della colza, dove ancora si intravedono distese di erba per il foraggio? Ovunque mais, mais e poi ancora mais. E’ palpabile il senso di disaffezione della gente e di molti politici, ma anche di qualche agricoltore e proprietario terriero, verso il comune patrimonio verde. Adescati di volta in volta da nuove mode diversamente camuffate, da spicciole voglie di presunta ecologia; attratti da specchietti allettanti con il miraggio di maggior profitti, non di rado imbrogliati da leggi complicate e a doppio taglio, ci si consuma in tentativi spesso infruttuosi il cui bagliore si spegne alla velocità di un lampo.In un periodo di crisi profonda, di disoccupazione allarmante, di spettri economici e finanziari minacciosi, è così assurdo pensare ad un nuovo, e perché no, antico modo di fare agricoltura? Dimentichiamo la logistica alienante, riprendiamoci le nostre cascine e, all’insegna di una vita più umile e modesta, riscopriamo l’amore per questa terra generosa e rivediamola come immenso dono di un Dio che ce l’ha affidata perché si facesse fonte della nostra ricchezza e del nostro pane e vivere quotidiano.
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